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Review: H. Glinka, “Zur Genese autonomer Moral”. Eine Problemgeschichte des Verhältnisses von Naturrecht und Religion in der frühen Neuzeit und der Aufklärung (Stefania Achella)

Presentiamo il testo della recensione di Stefania Achella al volume Zur Genese autonomer Moral. Eine Problemgeschichte des Verhältnisses von Naturrecht und Religion in der frühen Neuzeit und der Aufklärung di Holger Glinka  (Felix Meiner Verlag, Hamburg, 2012), apparsa sull’ultimo numero di “Verifiche”, XLII (2013), n. 4, pp. 157-165 .

Holger Glinka, “Zur Genese autonomer Moral. Eine Problemgeschichte des Verhältnisses von Naturrecht und Religion in der frühen Neuzeit und der Aufklärung, Felix Meiner Verlag, Hamburg 2012, pp. 383.

Come dimostra la discussione riportata dalla stampa tedesca, a partire dalla recensione di Michael Pawlik pubblicata sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” dell’8 novembre del 2012, il volume di Holger Glinka rappresenta non soltanto una puntuale e intelligente ricostruzione del processo di secolarizzazione del diritto, ma anche il tentativo di rintracciare genealogie alternative a quelle tradizionali, in grado di offrire nuove chiavi interpretative di alcuni concetti centrali della modernità. È questo senz’altro, dal punto di vista teorico, uno degli aspetti originali del volume, che ricostruisce la genesi del processo di autonomizzazione della morale, dalla prima modernità all’illuminismo attraverso una genealogia non consueta in cui si avvicendano Bodin, Hobbes, Spinoza e d’Holbach, promotori di un duplice processo: da una parte di emancipazione del diritto dalla teologia, dall’altra di costituzione di un sistema di riferimento per la morale alternativo a quello teonomico.

Questa lettura rivela ancora più la sua attualità se si considera che la pubblicazione del volume di Glinka è quasi contemporanea all’uscita del nuovo lavoro del filosofo italiano Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi 2013). Sebbene si tratti di due testi con vocazioni profondamente diverse, lascia di certo riflettere il fatto che entrambi i volumi, intorno ai quali si è mostrato un forte interesse da parte del dibattito contemporaneo, avvertano l’esigenza di tornare ad interrogare la prima modernità sul nodo centrale, quanto problematico, del rapporto tra religione e diritto, o per usare l’espressione cara ad Esposito, della teologia politica. Un processo che passa per l’affermazione della soggettività, per il ‘dispositivo’ della persona, e che per Glinka segna il passo dell’affrancamento della morale da principi eteronomi. Ma l’obiettivo dell’Autore non è solo quello di ricostruire l’evoluzione del concetto di morale autonoma. Attraverso l’analisi della genesi del concetto, egli intende piuttosto comprendere, come si legge nelle prime pagine  del testo, «le molteplici conseguenze sulle condizioni di vita economiche, politiche e non ultimo religiose oppure clericali, della società europea» (2) che l’affermazione dell’autonomia della morale ha prodotto. A guidare il volume di Glinka è dunque l’interesse dello storico della filosofia, inteso come storico pensante, che ponendosi lungo il solco della tradizione hegeliana intende innanzitutto comprendere, analizzare il passato, per rispondere a questioni del proprio tempo, un tempo in cui i conflitti di religione sembrano richiamare, sebbene proiettati in uno scenario globale, gli scontri religiosi che lacerarono l’Europa tra il XVI e XVII secolo.

Filo rosso di questa indagine è il mutamento dell’atteg- giamento gnoseologico: il passaggio da una morale eteronoma ad una autonoma è possibile infatti grazie ad un cambiamento del paradigma teoretico dovuto all’incontro tra filosofia, religione e scienze naturali, che prende vita nella prima modernità, e che si trova all’origine di una ridefinizione del concetto di conoscenza. Un mutamento che non avviene seguendo uno schema lineare, teleologicamente orientato, ma che anzi, come Glinka mette bene a fuoco, procede per incroci, intersezioni, risacche che portano alla separazione della filosofia pratica dalle rassicurazioni di fondo dell’impianto teonomico (7), nonché della morale dal diritto. Per l’Autore non si tratta quindi soltanto di una esposizione storica del problema, ma di capire esattamente i motivi che conducono alla genesi della morale autonoma, di capire la logica interna che conduce ad essa, e che Glinka scandisce in alcune tappe determinate.

L’assunto di partenza è che «la formazione di una morale autonoma, puramente razionale deve essere individuata in una fondazione secolarizzata del diritto». Condizione dell’autonomia della morale è dunque l’autonomizzazione del diritto dalle norme dettate dalla teologia. Ma questa nuova fondazione non avviene in un sol colpo. Le prime formulazioni teoretiche della morale autonoma si presentano infatti da principio «nella forma di diverse concezioni della teonomia», restando cioè iscritte all’interno  dei  suoi  confini,  come  accade  nell’antico  diritto naturale. I complessi dibattiti che si susseguono a partire dal XIII secolo mostrano poi la ‘faida’ filosofico-politica tra tali concezioni teonomiche, stimolando «la differenziazione tra le teorie del diritto naturale teologiche e quelle secolarizzate». L’approdo alla teoria del diritto naturale secolarizzata rappresenta dunque l’origine di «una concezione della morale fondata sul principio dell’autonomia – cioè sul principio della libertà umana dinanzi a Dio». La morale pre-kantiana si arresta però ad una forma provvisoria «che viene supportata dalla teoria di una soggettività libera, che pone cioè scopi a se stessa», ma che resta ancora teleologicamente orientata (9).

Il volume, pubblicato da Felix Meiner, tiene certo fede alle caratteristiche di rigore filologico proprio della collana, ‘Paradeigmata’, nella quale si colloca, avvalendosi di un’enorme quantità di materiale, ma non rinuncia allo sguardo dello storico attento, che colloca sempre le informazioni e gli eventi all’interno di un quadro teorico e metodologico ben definito. E l’opzione metodologica è esplicitamente dichiarata da Glinka nella premessa che antepone alla sua esposizione. Egli colloca infatti la sua ricerca nell’ambito della Problemgeschichte. Rispetto alla Begriffsgeschichte, cioè alla storia dei concetti, che in Europa, in maniera più strutturata a partire dagli anni ’70, rappresenta una delle principali modalità storiografiche (basti pensare alle grandi imprese dello Historisches Wörterbuch der Philosophie, di Joachim Ritter; dei Geschichtliche Grundbegriffe, di Otto Brunner e Reinhart Koselleck e dello Handbuch politisch-sozialer Grundbegriffe, di Rolf Reichardt), e che sviluppa la propria metodologia in contiguità con l’ermeneutica, la storia delle idee e la filosofia del linguaggio, Glinka si colloca invece lungo una linea segnata da Ernst Cassirer, Richard Kroner, Leo Strauss, Nicolai Hartmann, che può essere indicata come storia dei problemi. Presupposto teorico di questo approccio metodologico è quello di affrontare i concetti filosofici nella loro evoluzione storica aprendo alla problematica relazione tra presente dell’interpretazione e storicizzazione del passato (su questi temi la storiografia italiana ha dato i suoi più importanti contributi con i lavori, tra gli altri, di Duso, Chignola, Scattola). Rispetto all’approccio begriffsgeschichtlich, che cioè focalizza il proprio lavoro ermeneutico-ricostruttivo prioritariamente intorno al concetto, l’impostazione problemgeschichtlich, cioè della storia del problema, restituisce un primato logico e ontologico alla dimensione storica. E Glinka giustifica in modo articolato questa scelta, offrendo anche una ricostruzione interessante della politica accademica della Germania successiva alla seconda guerra mondiale. Tra le varie conseguenze delle persecuzioni naziste contro gli ebrei non va infatti trascurato il fatto che i principali sostenitori dell’approccio storico-problematico furono costretti a lasciare le università, quando non la nazione, cedendo il campo dapprima al dominio diretto di Heidegger e poi a quello dei suoi successori (come Gadamer e Tugendhat), favorendo un’opzione ermeneutica fenomenologica e cioè l’idea di una linguisticità dell’essere (Sprachlichkeit des Seins) rispetto all’orizzonte del tempo (23). È il caso della lettura gadameriana, nella quale la Begriffsgeschichte incorporerebbe al proprio interno la Problemgeschichte. Per Glinka si tratta invece di invertire questa istanza, proprio perché l’ambito d’azione della storia dei concetti non può che cadere, a suo avviso, all’interno della Problemgeschichte che «in- dagherebbe la storia di tutte le relazioni eterne e immutabili – problemi formati a partire dai concetti – che si sono però realizzate nella storia della filosofia» (27), secondo un movimento che dalla storia agisce sulla dimensione erkenntnisteoretisch, e viceversa. In questa luce vanno perciò letti i modelli proposti da Bodin, Hobbes, Spinoza e d’Holbach che, in risposta alle condizioni del proprio tempo, avrebbero operato delle sostanziali modificazioni nell’approccio teoretico al problema della morale e del diritto, tali da produrre una vera svolta all’interno della storia dei concetti. Il permanere di alcuni termini non deve dunque dissimulare il nuovo senso che tali concetti assumono in seguito a mutamenti storici e teoretici significativi, come attestato nella ricostruzione dei concetti di natura, legge e diritto (Natur – Gesetz – Recht) che, pur restando immutati sul piano terminologico, rimandano ad orizzonti semantici completamente mutati.

In questa cornice metodologica diventa perciò fondamentale fare luce, come avviene nella seconda parte del volume, proprio sulle ambiguità e le discontinuità semantiche all’interno dei principali concetti utilizzati dalla tradizione del diritto naturale, a partire  da  quello  di  legge.  Mostrando,  ad  esempio,  come  il passaggio dalla legge di Dio a quello dell’uomo si compie anche attraverso il processo di svuotamento della legge ad opera del diritto positivo e all’espulsione di Dio tanto dalla legge di natura, attraverso le istanze della fisica moderna, quando da quella giuridica, attraverso il riconoscimento del potere del sovrano sulla legge. Scrive a tal proposito Glinka: «Guardando alla legge positiva, dalla metà del XVII secolo si registra una perdita di valore: la legge positiva si riduce alla prescrizione (svincolata da valori) di un legislatore; il carattere di razionalità o di giustizia scivola sempre più sullo sfondo, fino a scomparire del tutto. E anche la legge di natura non è più identificabile con l’ordine di un legislatore» (56). Tale processo arriverà a conclusione nella seconda metà del XVIII secolo, quando non resterà più alcun concetto convincente di legge (Gesetzbegriff), che si mostrerà piuttosto, come aveva intuito già Jean Bodin, semplicemente come un ‘comando del sovrano’.

La terza parte del volume, quella complessivamente più corposa, dopo le prime due di natura più propriamente metodologica e terminologica, si dedica alla vera e propria ricostruzione della genesi della morale autonoma, che Glinka scandisce in quattro ‘stadi’: 1. la dottrina dello stato di Bodin, che tende ad un concetto di sovranità secolarizzato, ma che resta basata ancora su un fondamento animista; 2. la fondazione hobbesiana del diritto interno dello Stato ovvero del diritto civile che deriva dal suo contrattualismo; 3. il rifiuto di Spinoza di un appello alla religione nella comprensione della natura, eman- cipando il diritto dalle leggi talmudiche a favore di una concezione metafisica, etica e teologico-politica di tipo nuovo, nel segno della libertà dell’individuo; 4. infine D’Holbach e il suo progetto di un sistema morale areligioso e costruito sulla base della fisiologia, come conseguenza della critica radicale dell’illuminismo francese alla religione (84). Il passaggio da una autonomia costruita su base ‘teologico-politica’ ad una di tipo ‘puramente razionale’ apre poi alla successiva interpretazione puramente filosofica dell’uomo operata da Kant e al rifiuto di ogni paternalismo connesso ad una determinazione eteronoma della società, ma non fatto oggetto esplicito di questo volume.

Il primo stadio si lega quindi al pensiero di Bodin che rappresenta, nel percorso di Glinka, «la fondazione secolare dell’obbligazione della legge» (98). Dopo un’introduzione dedicata a I sei libri della Repubblica del 1576, viene affrontato il tema della tolleranza, centrale nel Colloquium heptaplomeres del 1593, le sei conversazioni tra i sette saggi, conoscitori di diverse fedi. L’importanza di questo tema nel teorico della sovranità è evidentemente il risultato della sua separazione del potere del principe dalla religione, da cui ne consegue una indipendenza della legge dalle prescrizioni religiose. La perdita di centralità del problema della ‘vera religione’, come Glinka mostra nelle pagine seguenti, segna la graduale perdita di ruolo della religione nel dibattito teorico intorno allo stato e al diritto. Già con Bodin, infatti, la questione relativa alla vera religione perde importanza per cedere il passo «all’obbligo alla tolleranza e agli ammonimenti rispetto alle conseguenze delle guerre civili». Sebbene per Bodin l’etica, per quanto non più teonomica ma orientata in direzione antropologica, resti legata ad un fondamento teologico, poiché Dio è bene e scopo supremo dell’uomo, l’agire terreno dell’uomo si regola a suo avviso in forza del libero volere della conoscenza razionale del diritto secondo i principi della responsabilità individuale» (96). Distinguendo tra la fondazione del potere illimitato del signore e le istanze morali cui costui deve comunque sottostare (e cioè la preservazione della giustizia naturale), Bodin segna un primo passo in direzione della separazione tra diritto e morale (328).

Decisamente originale per la ricchezza delle fonti e l’approfondimento del tema, l’attenzione che Glinka dedica al Bodin della demonologia. Apparso nel 1580 con il titolo di Demonomania, ripubblicato nelle edizioni successive anche sotto il titolo di Malleus Maleficarum, in questo testo Bodin non solo racconta dei processi alle streghe in cui fu coinvolto pro- fessionalmente, ma mostra anche quanto la sua esigenza di individuare nell’ambito della teoria dello stato una soluzione razionale, corrisponda invece ad un orizzonte tradizionale sul piano culturale. Ma in realtà anche su questo fronte, la contesa di Bodin con il medico Weyer, che intendeva discriminare su base scientifica gli impossessati dai malati di mente, mostra comunque lo slittamento su un piano scientifico, di una discussione fino ad allora condotta solo su base religiosa.

Se Bodin arriva dunque ad un compromesso tra il machiavellismo cattolico (per cui il signore non deve curarsi delle implicazioni morali quando ne va del benessere del proprio Stato) e il modello protestante (che persegue il benessere dello Stato), il suo pensiero resta comunque segnato da un animismo che guarda in modo ancora non-problematico al potere illimitato del clero nello Stato e complessivamente al ruolo della religione. Su questo aspetto un mutamento significativo avviene invece in Hobbes, anche in virtù dello scontro in ultima istanza confessionale, tra il re e il parlamento inglese che si consuma in quegli anni. Per Hobbes si tratta perciò di giustificare, attraverso un contratto, la coabitazione tra le competenze terrene del sovrano e la di- mensione della spiritualità, sforzandosi per una rifondazione della politologia, sebbene la legittimazione del potere politico non poggi per il filosofo inglese solo sulla ragione, ma rimandi ancora in ultima istanza ad una unità premoderna tra trono e altare (129). Se il nominalismo hobbesiano contribuisce sul piano gnoseologico a un importante cambiamento, facendo del Leviatano «der grosse Definier» (329), il definitore della legge, d’altro canto nel suo sistema manca ancora il riconoscimento esplicito dello spazio dell’interiorità, della coscienza, solo accennata nella differenza tra ‘comandi’ e ‘consigli’. Tale distinzione, per cui il comando trova la ragione della sua ubbidienza nella volontà di chi legifera, mentre il consiglio in quella di cui ascolta, opera uno slittamento all’interno della storia del problema: «il trasferimento del principio dell’obbedienza dal piano divino a quello umano: più pre- cisamente a quello del diritto civile o del diritto pubblico» (193). Questo slittamento determina un riposizionamento rispetto al rapporto tra regnum dei e regnum hominis, teonomia e diritto pubblico. La legge, che nasce dall’uomo, costituisce le catene, mentre il diritto rappresenta la sfera della libertà. In questo diverso rapporto, l’uomo è tenuto all’obbedienza nei confronti della legge, lasciando invece la propria libertà alla religione.

Spinoza opera un ulteriore ampliamento di questa sfera della libertà. Nel Tractatus theologico-politicus, egli mette infatti in discussione la giustificazione teistica dell’autorità politica (289), rivendicando la libertà dell’uomo nell’esercizio non solo della religione, ma di tutte le attività della mente e del corpo. Non si tratta solo della libertà religiosa, ma di riconoscere lo spazio libero della ragione che appartiene ad ogni uomo. L’idea di sottoporre alla ragione anche la rivelazione, negandole una dignità teologica, è l’effetto della trasformazione che opera di fatto una sostituzione della filosofia alla religione come produttrice di norme.

L’ultimo ‘stadio’ del processo di autonomizzazione della morale dalla religione avviene con d’Holbach che sottrae  gli eventi dell’universo al caso riconducendoli al meccanicismo deter- ministico. Il mutamento è ancora una volta epistemologico. La morale non viene cioè più fondata sui principi religiosi, ma cerca i suoi fondamenti nella scienza. La questione diventa cioè, è possibile rintracciare un fondamento scientifico alla morale? (291). D’Holbach spinge dunque al massimo il tentativo di ricondurre la morale alla scienza, con la pretesa teoretica di una morale materialista, atea, utilitaristica, universalistica, ma nella con- sapevolezza che «per essere filosofo non basta attaccare i pre- giudizi tramandati; ma si deve porre al loro posto delle verità utili». Verità che però possono avere un prezzo alto, mettendo a rischio la felicità, i beni e le vite di coloro che le proclamano (325).

Il viaggio si interrompe a questo punto, lasciando intravedere altri arcipelaghi verso cui orientare le vele, Jacobi, Hume, i moralisti inglesi, e complessivamente l’idealismo che aprono però a nuovi problemi.

La lettura storico-problematica del concetto di morale autonoma che Glinka opera in queste pagine, fornisce molto materiale su cui riflettere e apre ad alcune interessanti questioni. In primo luogo il rapporto tra la legge e la giustizia. In che termini all’interno di una secolarizzazione del diritto vanno intese e fondate le istanze di giustizia? Resta necessario cioè, in questo orizzonte, un riferimento ad una natura trascendente? In secondo luogo, la genealogia proposta, sbilanciata in parte sulle linee del materialismo, come mostra la scelta non scontata di concludere con d’Holbach, non conduce ad una soluzione che è, come sembra riconoscere l’autore stesso, senza via d’uscita? Infine, questo percorso non è forse troppo segnato da una astuta ragione, una storia che non solo si fa mentre avviene, ma il cui orizzonte sembra seguire un destino già tracciato? Domande che mostrano la ricchezza di un dibattito, al quale il volume di Holger Glinka ha dato senz’altro un contributo intelligente ed efficace, e che continuerà a far discutere.

Stefania Achella

La versione PDF della recensione è disponibile al seguente link: S. Achella – Review di H. Glinka – “Zur Genese autonomer Moral”

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