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Recensione: J. M. Buée – E. Renault, “Hegel à Iéna” (A. Longo)

Proponiamo la recensione alla raccolta di saggi curata da J.-M. Buée e E. Renault, Hegel à Iéna, scritta da Arianna Longo e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni di filosofia (Anno 6, vol. 2 – 2017). Il testo PDF della recensione è disponibile qui.

Jean-Michel Buée, Emmanuel Renault, Hegel à Iéna, ENS Éditions, 2015, pp. 236, € 19, ISBN 9782847886573

Arianna Longo, Università degli Studi di Padova

L’opera curata da J.-M. Buée e E. Renault, Hegel à Iéna, ha lo scopo di presentare i temi e i problemi più pregnanti del periodo jenese di Hegel in modo sistematico, ossia offrendone una visione d’insieme, colmando così una lacuna degli studi in lingua francese. Essa è il frutto di una giornata di studi della Scuola Normale Superiore di Lione, in cui sono confluiti i saggi di undici autori diversi.

Il cap. I è la traduzione di un testo di Klaus Düsing, già edito nell’omonimo tedesco di quasi quaranta anni fa Hegel in Jena, in cui si illustra il passaggio, avvenuto intorno al 1804, da una metafisica della sostanza a una metafisica della soggettività. Se per sostanza si intende il correlato ontologico dell’indifferenza o identità assoluta di Schelling, di cui Hegel in un primo momento sposò senz’altro la causa, l’A. rileva come essa comporti una difficoltà rispetto al concetto di coscienza che Hegel svilupperà a partire dal 1803-1804: la coscienza singola diviene coscienza assoluta e universale, cioè sostanza, mediante la riflessione in sé stessa attraverso il proprio opposto. Ma la sostanza come fondamento non è consona a spiegare l’unità della coscienza che si toglie nello spirito del popolo attraverso tale attività di autoriferimento. Sarà questo il motivo per cui Hegel prenderà progressivamente le distanze dallo spinozismo di matrice schellinghiana, a favore di una metafisica della soggettività, la cui prima comparsa si ravvisa nel manoscritto del 1804-1805, Logica e metafisica.

Nel cap. II J.-M. Buée prende in esame le trasformazioni del rapporto tra lo spirito assoluto e la sfera dell’eticità. Se inizialmente il primo troverà la sua piena realizzazione nella seconda, in seguito si autonomizzerà da essa, per raggiungere altrove l’unità compiuta con sé stesso. Diversamente da come si potrebbe pensare, questo cambiamento testimonia, secondo l’A., l’abbandono definitivo di una nozione sostanzialista dell’assoluto, il cui punto di svolta andrebbe rinvenuto nel ruolo diverso attribuito alla storia. La vita etica come realizzazione più alta dell’assoluto, infatti, era il correlato di una storicità relegata al regno dell’esteriorità empirica, quest’ultima assunta come manifestazione in sé necessaria, ma contingente nelle sue forme particolari, dello spirito dimorante presso sé stesso. In seguito, però, la Weltgeschichte sarà un momento imprescindibile nello sviluppo concreto del sapere di sé dell’assoluto – per un assoluto che appunto non è e semplicemente si manifesta nel finito, ma che diviene tale nel processo di comprensione di sé stesso.

Nel cap. III Franco Chiereghin mette a confronto Logica e metafisica con la logica dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Norimberga. La differenza cruciale tra le due opere risiede nello svolgimento delle determinazioni concettuali: nella prima esso consiste in un’organizzazione delle determinazioni di pensiero, mentre nella seconda in una loro auto-organizzazione. Il momento di svolta tra i due diversi paradigmi viene rinvenuto, inoltre, nella redazione della Fenomenologia dello spirito: sarebbe stato proprio il movimento immanente alla coscienza a far pervenire Hegel al metodo speculativo imperniato sulla Selbstbewegung che strutturerà la Scienza della logica. Se nel manoscritto del 1804-05 il principio dell’auto-organizzazione, cioè dell’automovimento dei concetti, era limitato alla seconda parte dell’opera, ossia alla Metafisica, esso diverrà in seguito costitutivo della logica nella sua interezza, superando il dualismo metodologico che rendeva impossibile la piena trasparenza del pensiero a sé stesso.

Il cap. IV presenta un’indagine sulle rimodulazioni dell’idea di Filosofia della natura tra il 1801 e il 1806. Emmanuel Renault mostra come la Naturphilosophie, da parte determinante del sistema vada ad occuparne un posto secondario. All’epoca in cui forte era ancora l’influenza della schellinghiana metafisica della sostanza, Hegel sembra concepire filosofia della natura e filosofia dello spirito su uno stesso piano, vale a dire come modi tanto necessari, quanto unilaterali, di esistenza di un medesimo assoluto. Con la ridefinizione dell’assoluto come spirito del 1803-04, il rapporto tra le due parti del sistema diventerà asimmetrico: la natura sarà concepita come l’altro dello spirito. Infine, nel 1805-06, con la determinazione ormai centrale della vita in termini di finalità interna, la filosofia della natura sarà tesa a mostrare la progressiva riflessione attraverso cui lo spirito fa ritorno in sé stesso.
Christine Daluz, nel capitolo seguente, approfondisce proprio il ruolo cruciale di uno degli aspetti rilevati da E. Renault, ossia quello del concetto di vita nella Naturphilosophie. Da generico principio d’organizzazione, essa diverrà la chiave esplicativa del concetto di organismo, inteso come totalità concreta e autofinalizzata di una pluralità di processi. In quanto tale, soltanto il concetto di vita fa emergere la trama razionale che intesse tutto il reale, ivi compresa la natura – pur sottolineando, come l’A. non manca di fare, la differenza tra la vita nella natura e la vita dello spirito. In polemica anti-romantica, dunque, la natura può e deve divenire oggetto di scienza; poiché essa è conoscibile mediante la ragione, non costituisce un ostacolo all’universalità del sapere filosofico. Quanto detto troverebbe un riscontro nella coincidenza tra la nuova struttura tripartita della filosofia della natura e la ridefinizione della natura come esteriorità a sé dell’idea. Da quest’ultima, segue a sua volta una doppia rideterminazione del concetto di organismo vivente: se da una parte esso è la forma immediata, dunque soltanto provvisoria dell’idea, dall’altra in esso non si può non cogliere la struttura del concetto (in quest’ultima operazione risiede la differenza in base a cui Hegel articola il rapporto tra la filosofia della natura e le scienze naturali a lui contemporanee).

Il cap. VI è dedicato a quella che Christophe Bouton denomina «la dialettica del tempo». Nelle lezioni sulla Filosofia della natura del 1804-05, il tempo è il primo momento della natura, che precede lo spazio; un ordine, questo, che sarà invertito nel biennio seguente. Nel primo caso, l’A. ricorre alla distinzione logica tra cattivo e vero infinito al fine di chiarire la dialettica di passato, presente e futuro tramite cui Hegel distingue il tempo reale dal tempo astratto, ossia il tempo storico dalla ripetizione uniforme e senza memoria dei cicli naturali. Nel 1805-06 la dialettica delle tre dimensioni temporali sarà invece determinata dal passaggio tra le determinazioni concettuali di essere e nulla, ma a emergere – ora con più chiarezza – sarà sempre il carattere concreto del Gegenwart (distinto dallo Jetzt) in quanto storia. Ora, se il presente è stato considerato – almeno dal Timeo di Platone – la dimensione temporale più prossima all’eternità, il primato ontologico del presente in Hegel conduce a un risultato opposto: contro l’abolizione del tempo anelata da Schelling, sostiene l’A., «il sapere filosofico non è una contemplazione eterna dell’eterno» (138), ma l’hegeliano «ihre Zeit in Gedanken erfaßt».

Nel cap. VII Italo Testa sostiene la tesi seguente: attraverso una storia naturale dell’evoluzione della relazione in cui la coscienza si riflette in sé stessa, storia che ha il suo inizio nel sé organico dotato di capacità comunicative che gli consentono di interagire con l’ambiente circostante e i suoi simili, Hegel avrebbe gettato le basi per una «Naturphilosophie del riconoscimento» (143). In altre parole, la riflessione in sé della coscienza, nelle sue forme spirituali, presupporrebbe, secondo l’A., il riconoscimento come struttura pre-riflessiva di una coscienza naturale, di cui la prima sarebbe una riorganizzazione in strutture più complesse.

Nel cap. VIII Gilbert Gérard ripercorre l’itinerario di Hegel a Jena nei termini di una progressiva assolutizzazione dello spirito che, da attributo dell’assoluto, diverrà il «principio strutturante dell’intero sistema» (177). L’anno della svolta è il 1803, là dove Hegel  ridefinisce lo spirito in termini non ontologici: lo spirito non è un essere – né si ritrova nella natura come tale –, bensì un atto, e precisamente «l’atto assolutamente universale» che è «principio di ogni realtà» e che, in quanto tale, riconosce nella natura il proprio altro da cui – contrariamente a Kant e a Fichte – non bisogna esercitare un’astrazione, ma una idealità: detto altrimenti, l’emancipazione dello spirito dalla natura può verificarsi soltanto se essa non viene concepita nei termini di un’esteriorità rispetto a cui lo spirito deve riaffermare la propria indifferenza, ma il momento necessario e ineludibile dell’attività stessa che è lo spirito.

Franck Fishbach, nel cap. IX, suggerisce l’ipotesi di interpretare la filosofia dello spirito, negli abbozzi di sistema inclusi tra il 1802 e il 1806, come «filosofia del lavoro» – espressione usata per la prima volta da Myriam Bienenstock. Se il concetto di riconoscimento ha una rilevanza notevole per l’Hegel di quel periodo, l’A. afferma che esso può essere conseguito a pieno mediante il lavoro. L’indipendenza dell’oggetto nei confronti del soggetto, la resistenza che esso oppone alla consumazione diretta di quest’ultimo, costituisce un freno al soddisfacimento immediato dei bisogni. Ma tale aspetto è alla base di una forma unilaterale di riconoscimento; per comprendere la progressiva complessità del suo strutturarsi, l’A. fa riferimento a una specifica forma di lavoro, ossia il «lavoro vivente» (183): si tratta della Bildung, cioè dell’attività di formazione che la specie umana intraprende su sé stessa attraverso l’educazione, allo scopo di adeguarsi progressivamente al proprio concetto di sé. In tale lavoro, l’essere umano è al contempo soggetto e oggetto: l’oggettività su cui si opera la trasformazione non è – come nelle forme più semplici di lavoro – un’esteriorità data, ma l’esistenza naturale come determinazione immediata dello stesso soggetto agente. La Bildung, come azione reciproca dei singoli in cui la specie opera su sé stessa, è un lavoro universalizzante ed emancipante, che dà per risultato degli individui indipendenti e tra loro uguali, che come tali si riconoscono mutualmente.

Il capitolo seguente procede sulla medesima scia: Jean-Philippe Deranty rintraccia nel nesso tra riconoscimento e lavoro i pilastri dell’ontologia sociale dei frammenti di sistema jenesi, nonché delle intuizioni notevoli che diverranno centrali per la filosofia sociale contemporanea. Nello specifico, l’A. prende in esame il concetto di valore dal Sistema dell’eticità del 1802 alle filosofie dello spirito del 1803 e del 1805, sulla cui base mette poi Hegel a confronto con Marx e con Mauss. Piuttosto che avanzare un’apologia della proprietà individuale, assumendo in toto la teoria economica classica, il legame tra «lavoro universale» e riconoscimento che emerge dai testi presi in esame non solo sottolinea il carattere non esclusivamente strumentale del lavoro, ma permette di tracciare una linea di continuità con l’importanza che il lavoro avrà per l’organizzazione della società in Marx. Quanto detto consente inoltre di leggere nelle pagine hegeliane un’anticipazione di ciò che costituirà il fulcro degli studi di Mauss, vale a dire del nesso tra valore economico e valore morale come fondamento della società.

Nell’ultimo capitolo Ludwig Siep pone a tema il rapporto tra filosofia pratica e storia. Dal saggio Le maniere scientifiche di trattare il diritto naturale si evince che la filosofia pratica non è fondata nella comprensione della storia del mondo, ma nella costruzione dello stato: sarebbe quest’ultimo, infatti, e non un determinato popolo, a esprimere in modo adeguato l’idea dell’eticità assoluta. La realizzazione della libertà, che nel secondo periodo di Jena sarà intesa come un processo di riconoscimento, può dunque avvenire all’interno dello stato in quanto sistema istituzionale giusto. L’Hegel di allora sarebbe così esente dall’accusa di aver ridotto la filosofia pratica alla storia; la sua ambizione era piuttosto quella di una filosofia pratica che fosse in grado di pensare l’unità di libertà, stato e storia. La filosofia pratica di Jena non è infatti una semplice esposizione delle istituzioni, ma avanza anche una loro critica storica, da cui risulta che ognuna è un momento necessario e provvisorio dello sviluppo della libertà, in cui il riconoscimento – come istanza di mediazione tra l’eticità della polis e la libertà dei moderni – gioca un ruolo fondamentale.

La raccolta curata da Buée e Renault offre una panoramica completa e accurata dell’evoluzione del pensiero hegeliano negli anni di Jena ed è perciò una lettura appropriata per il lettore che si accosta per la prima volta alle sue opere antecedenti il periodo della maturità.

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