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Review: A. Laitinen – C. Sandis (eds.), “Hegel on action” (Veronica Ceruti)

Presentiamo il testo della recensione di Veronica Ceruti al volume Hegel on  action a cura di Arto Laitinen e Constantine Sandis (Palgrave Macmillan, Basingstoke/New York, 2010), apparsa sull’ultimo numero di “Verifiche”, XLII (2013), n. 4, pp. 165-173.

Arto Laitinen – Constantine Sandis (eds.), Hegel on  action, Palgrave Macmillan, Basingstoke/New York 2010, pp. XVIII-302.

Il volume si pone lo scopo di presentare e analizzare esaustivamente la concezione hegeliana dell’agire umano, così come essa è esposta in diversi luoghi del sistema, e di farla interagire con le teorie contemporanee dell’azione. La speranza è di incoraggiare un dialogo tra gli studiosi di quest’ultima area e gli specialisti hegeliani; il libro vuole inoltre essere un documento riassuntivo dello stato della ricerca e un anticipo del suo sviluppo. Tra i lavori maggiormente propulsivi del dibattito sul fronte hegeliano vengono citati quelli di Pippin e Pinkard, che considerano il sistema del filosofo tedesco come non-metafisico, i saggi di McDowell e Brandom, esponenti della ‘scuola di Pittsburgh’, e le importanti monografie di Quante e Menegoni, dedicate al concetto di azione. I curatori intendono seguire l’intuizione tayloriana secondo la quale sia la filosofia dell’azione in quanto tale sia il paragone con altre, non hegeliane teorie dell’azione costituiscono un ottimo punto d’attacco per inoltrarsi nell’intero pensiero di Hegel.

Nell’introduzione vengono inoltre elencati gli oggetti d’indagine di una filosofia dell’azione, ossia le intenzioni, la volontarietà, la ragion pratica e la motivazione; si tratta di elementi che sono da porre in relazione tra loro, sebbene non alla maniera degli oggetti naturali. All’interno della filosofia dell’azione sono individuati quattro gruppi tematici; un primo, costituito dalla teoria dell’azione vera e propria, che esplora le questioni ontologiche e concettuali connesse all’autentica natura dell’azione, distinguendo azioni ed eventi, tipologie di azioni, descrizioni di esse, azioni intenzionali o meno; un secondo, che si concentra su fenomeni quali intenzioni, credenze, desideri, volizioni e propositi, e la loro relazione all’azione – di identità, causazione, espressione; un terzo, riguardante le concezioni filosofiche sulla natura dell’agency, ossia la capacità di agire, che esplorano punti normativi e motivazionali quali controllo, deliberazione, giustificazione; un quarto, riguardante libero arbitrio e responsabilità, che include i concetti di libertà, autonomia, imputabilità, tragedia, fatalismo, determinismo. Hegel tratta questioni attinenti a ciascuna di queste aree, e spesso le sue intuizioni sfidano tali categorizzazioni.

I contributi sono organizzati in sette coppie tematiche, secondo rapporti di vicendevole integrazione o di critica reciproca; alcuni di essi esaminano la Fenomenologia dello Spirito, in particolare le sezioni ‘ragione’ e ‘moralità’, mentre altri analizzano la Filosofia del diritto, nello specifico l’‘eticità’ e la ‘moralità’. Quest’ultima riveste un’importanza particolare, poiché è il luogo nel quale è contenuta la teoria hegeliana dell’azione propriamente detta. In essa Hegel espone in modo sistematico il concetto di azione e ne analizza i vari momenti – contenuto, fine, mezzo, proposito, intenzione, conseguenze; l’azione è qui considerata nel suo rispetto soggettivo, ossia unicamente dal punto di vista del soggetto agente stesso.

Tre dei contributi presentati erano stati pubblicati in precedenza. Il primo è quello di Charles Taylor, Hegel’s Philosophy of Action, contenuto nel volume omonimo del 1983, qui riproposto in quanto ha dato l’avvio al presente dibattito. Taylor individua due differenti approcci alla filosofia dell’azione: il causalismo, che considera le azioni come movimenti fisici, causati da stati mentali, ossia desideri e credenze, e il punto di vista qualitativo, o espressivo, che distingue radicalmente l’azione dagli altri eventi e postula l’inseparabilità ontologica di proposito e azione. Tracciando questa distinzione, ed eleggendo Hegel a rappresentante del secondo orientamento, Taylor inaugura uno dei filoni più discussi del volume.

La tesi tayloriana viene infatti messa in questione da Knowles nel saggio Hegel on Actions. Reasons and Causes. Knowles critica l’inseparabilità ontologica di proposito e azione, sostenendo che il nesso che li lega è invece logico. Egli propone, inoltre, una lettura causalistica di Hegel, dove il concetto di causalità non è da intendersi da un punto di vista meramente fisicalista, davidsoniano; secondo Knowles, invece, l’effetto non è nient’altro che la manifestazione della causa.

Il secondo contributo già edito è quello di McIntyre, Hegel on Faces and Skulls, apparso nel 1972 in Hegel: a collection of critical essays. L’apporto specifico da esso fornito, che motiva la sua ripubblicazione, è la riattualizzazione di un approccio critico hegeliano finalizzato a una comprensione più profonda del concetto di azione. Secondo McIntyre, le contemporanee neuroscienze condividono spesso le assunzioni infondate, e i relativi errori, delle pseudoscienze criticate da Hegel nella Fenomenologia, ossia fisiognomica e frenologia, quali ad esempio il ritenere che i meccanismi interni siano cause sufficienti del comportamento intenzionale e che i lineamenti esteriori dell’agente esprimano alcune sue caratteristiche interne (tra cui, ad esempio, il carattere), che vengono inoltre pensate come ad esso preesistenti.

Il tema dell’esteriorizzazione del sé, e l’interrogativo se l’agente umano faccia parte della realtà oggettiva, e se quindi anch’esso possa perciò essere spiegato secondo le leggi naturali, è rintracciabile anche nel contributo di Schmidt am Busch, What Does it Mean to ‘Make Oneself Into An Object’? In Defense of a Key Notion of Hegel’s Theory of Action; lo studioso considera il volere, descritto nella Filosofia dello spirito jenese, come uno sforzo di auto-oggettivazione. A suo parere, il lavoro non è né un ideale romantico, inutile per la filosofia sociale (come ritiene Habermas), né, analogamente a quanto affermato da McIntyre, si basa su proprietà interne preesistenti all’agire (come invece sostiene Honneth); il concetto di lavoro, che rientra all’interno di quello più ampio di attività, non è quindi riducibile a una mera abilità tecnica ma implica, al contrario, la capacità di risoluzione di problemi imprevisti. Il contributo di Schmidt am Busch, i cui punti di riferimento sono la teoria critica e il marxismo, affronta un testo non commentato dagli altri autori, e rappresenta dunque un punto di vista decisamente eterogeneo nel volume; l’unico punto di continuità con gli altri saggi è che anch’egli mette in luce la critica hegeliana alla distinzione tra interno ed esterno, che sta alla base del modello di oggettivazione.

Il terzo contributo non inedito è quello di McDowell, Towards a Reading of Hegel on Action in the ‘Reason’ Chapter of the Phenomenology, nel quale l’autore si pone in aperta dialettica con Pippin; il dibattito tra questi due filosofi è noto agli addetti ai lavori, e qui se ne è voluto offrire uno spaccato evidenziando i temi della socialità della ragione e del costruttivismo. Pippin, nel suo articolo Hegel’s Theory of Agency: the Inner-outer problem, si pone nella scia di Taylor, postulando l’esistenza di un’autorelazione interna comprensibile solo a partire dal contesto sociale; essa è la base per cogliere le azioni come eventi di tipo speciale, e per spiegare la relazione tra interno ed esterno in modo non causale, uscendo così dall’alternativa tra compatibilismo e incompatibilismo. Pippin propone il paradigma dell’espressivismo hegeliano, ritenendo l’interno inseparabile dalla sua manifestazione esterna; in forza di ciò, egli sostiene la retrospettività dell’intenzione, che non è conoscibile se non dopo aver agito, e si rivolge in modo alquanto provocatorio alle affermazioni più controintuitive e paradossali di Hegel sul concetto di intenzione. Egli si oppone inoltre alla tesi espressa da Quante, in base alla quale la sezione ‘moralità’ della Filosofia del diritto, considerata autonomamente, possa costituire un fondamento per la filosofia dell’azione, ma ritiene piuttosto che per porre le basi di quest’ultima occorra riferirsi anche alla Fenomenologia dello Spirito.

McDowell condivide con Pippin la lettura sociale della concezione hegeliana di agente, con la differenza che per lui la capacità di agire razionalmente è uno status normativo dato dal contesto sociale. Inoltre, McDowell definisce la libertà come ‘reattività alle ragioni’; a suo parere, Pippin muove da una forma di costruttivismo kantiano al ‘costruttivismo sociale’ hegeliano, in quanto non tenta di rispondere alle ragioni, bensì di costruirle. Egli ritiene inoltre che Pippin, determinandolo retrospettivamente, abusi del concetto di intenzione. In ultima istanza, McDowell considera il costruttivismo normativo di Pippin e la sua convinzione della progressività dello spirito come rivelatori di una paura del relativismo, di un’ansia di responsabilità, che per McDowell è invece acquisibile unicamente sulla base delle ragioni dell’agente.

Anche Deligiorgi (Doing without Agency: Hegel’s Social theory of action) sostiene che le azioni abbiano senso solo in un contesto sociale, e tenta di mediare tra le posizioni di McDowell e di Pippin; secondo l’autrice, a differenza di Quante, Hegel è da interpretare come un non-cognitivista e, d’accordo con Knowles, l’azione non è ontologicamente separabile dall’intenzione, dacché la distinzione tra esse sarebbe valida esclusivamente nel linguaggio forense. Al fine di mostrarne i punti deboli, Deligiorgi estremizza la posizione di Pippin, proponendo invece una versione minimalista del retrospettivismo epistemico, resa necessaria dal fatto che il retrospettivismo contraddice il carattere orientato verso il futuro delle intenzioni, e che esse sono inseparabili dal loro compimento. Deligiorgi concorda con Quante nel ritenere che l’agency non sia una categoria metafisica, ma che risponda a un problema di responsabilità, dell’agire bene o male; l’intenzione da sola non è sufficiente a risolvere tale problema. L’autrice affronta infine il problema della proprietà dell’azione, ossia l’essere in grado del soggetto di stabilire se essa è sua.

Il contributo di Wood, vicino a quello di Deligiorgi per le tematiche dell’imputazione e della responsabilità, è intitolato Hegel on Responsibility for Actions and Consequences, ed è a mio avviso uno dei più utili e chiari del volume; esso verte sull’imputabilità delle conseguenze dell’azione, distinguendo il punto di vista hegeliano da quello kantiano. Secondo Kant, un’azione è espressione della volizione, ossia della massima, la quale è primaria; la bontà dell’azione è indipendente dalle sue conseguenze. Un atto, invece, è un’azione nella misura in cui è imputabile ad un agente e giudicabile secondo leggi. Secondo Hegel, invece, il valore morale è relativo all’oggettività esterna, l’atto pone un’alterazione nell’esistenza, e non c’è alcuna volizione che sia significativa indipendentemente dagli atti; l’imputabilità è così parte integrante della stessa concezione hegeliana del volere. Inoltre, Wood mostra come la responsabilità sia una mera relazione causale, astratta e generale, che attribuisce all’azione il predicato ‘mio’, ma che è priva di una connotazione morale. Al pari di Pippin, Wood ribadisce che l’aspetto esterno e quello interno dell’azione sono sempre  da  valutare  insieme,  e  riconduce  ciò  alla  definizione hegeliana del soggetto come serie delle sue azioni. Infine, egli mette in luce un aspetto di fortuna morale; agendo, il soggetto si espone al rischio del caso.

Un altro saggio rilevante, Hegel’s Planning Theory of Agency, è quello di Quante, il quale, con il suo volume Hegels Begriff der Handlung (1992), inaugurò un fecondo dialogo tra la filosofia hegeliana e quella di area anglosassone, cercando di mostrare come la prima anticipi alcune istanze della seconda. Nel contributo qui presentato, Quante traccia un parallelo tra la teoria della pianificazione di Bratman e la concezione hegeliana di azione; in realtà, il confronto con Bratman non è sviluppato quanto ci si aspetterebbe, e offre piuttosto uno spunto. Quante dichiara di non voler usare l’apparato logico-metafisico come una giustificazione della dimensione dell’azione umana, che non dipende, secondo lui, da una metafisica. La sua tesi è che Hegel concepisca l’azione come un perseguimento di obiettivi, e non come un’esecuzione isolata di singole intenzioni; per documentare ciò, egli analizza le strategie di scusa e giustificazione, introducendo il problema della narrativa, ossia della connessione tra l’agire e la descrizione che di esso ne fa l’agente. Anch’egli analizza poi i vari tipi di attribuzione di responsabilità – pensata non secondo un modello causale o non causale, bensì morale – e il caso dell’esenzione, considerata però alla stregua di una perdita di dignità.

In Hegel, Narrative and Agency, Speight condivide con Quante l’attenzione all’aspetto pianificatorio e l’approccio narrativo alla tematica dell’agency (già accennato anche da McIntyre). Egli si concentra, a partire dalla pratica del dare ragione, sul tema della narrativa in Hegel, confrontandola coi paradigmi moderni, e avvicinandola non al causalismo di Carrol, ma alla narrativa emozionale di Velleman e a quella valutativa di Barwell. Anche Speight, come Pippin, sostiene l’importanza della retrospettività nella giustificazione della natura di un’azione. La narrativa ha una forte inflessione sociale, in quanto è in dialogo con norme esistenti nella società, e il contenuto etico dell’azione è già presente nella moltitudine di impulsi. Speight evidenzia, infine, la struttura olistica del dare-ragione, in riferimento all’insieme di relazioni interdipendenti in cui l’agente è immerso.

Altri due saggi si focalizzano sui temi della libertà, del diritto, della moralità e del mondo della vita. In primis Houlgate, nel suo Action, Right and Morality in Hegel’s Philosophy of Right, compie un’analisi attenta e puntuale della sezione ‘moralità’ della Filosofia del diritto, a mio avviso molto utile per comprendere il testo hegeliano; egli intende dimostrare che la libertà di scelta, il mero libero arbitrio, non è sufficiente per agire, ma che occorre una nozione più ampia di libertà come coscienza del diritto. La sua tesi portante, contraria a quella di Quante, è che il concetto di azione non sia moralmente neutro, ma che l’azione umana sia necessariamente soggetta a valutazione morale in quanto espressione del diritto; secondo Houlgate la moralità dell’azione è condizione necessaria della sua libertà, in quanto agisce liberamente solo quella volontà che comprende il bene, e l’agente etico stesso che vuole il bene. Si noti tuttavia che Houlgate ammette che nei paragrafi 113-124 – gli unici considerati da Quante nel suo libro – non sia implicata un’attitudine morale, e fa quindi valere, de facto, due concetti diversi di azione.

Anche Pinkard, nell’articolo Freedom and Lifeworld, affronta la questione della libertà, inserendola all’interno della dialettica storica, e negando che la posizione hegeliana sia volontaristica; per volontarismo egli intende un caso speciale di causalismo, caratterizzato da una forte separazione tra interno ed esterno, così che la libertà è risultato di un atto interno del volere. Hegel, così come Aristotele, si oppone a questa posizione, sostenendo invece che il pensiero non sia separato dalla volontà, e trasforma la concezione aristotelica, in cui non era ancora aperto il divario tra interno ed esterno, in una dialettica storica e sociale della libertà; quest’ultima è analoga ad un principio motore, attualizzabile in azioni esterne. Pinkard si pone in questo modo sulla scia di Pippin e Taylor. Infine, egli mette in luce come il volere sia formato da due lati intrinsecamente uniti, quello formale dell’attività concettuale e quello della recettività, ossia della spontaneità pratica.

L’ultima coppia di contributi ha come denominatore comune i temi della coscienza, della vita etica, e delle ragioni neutrali per l’agente. Menegoni, nel saggio Action Between Conviction and Recognition  in  Hegel’s Critique of the Moral Worldviews,  analizza la sezione ‘moralità’ della Fenomenologia dello Spirito, a suo parere paradigmatica dell’intreccio di azione individuale e collettiva. Menegoni mette in luce le critiche mosse da Hegel alle dottrine morali più in voga nel suo tempo, ossia quelle di Kant e Fichte, i cui tentativi nascono dall’esigenza di armonizzare gli ideali morali e la realtà effettuale; esse sono per tale motivo segnate da una profonda antinomia che ne mina la legittimità, mancano di chiarezza nei loro fondamenti e, non riuscendo a conciliare i casi particolari e il principio universale, finiscono per oscillare tra estremi contraddittori. Menegoni analizza poi il concetto di convinzione, che Hegel riprende da Kant, mettendone in luce la natura intrinsecamente pubblica e comunicativa, e opponendola alla persuasione, che è privata; l’autrice individua nella decisione il momento nel quale l’individuo acquista un volere effettuale e si libera dalle strette del mondo morale, riuscendo finalmente ad agire. Infine, Menegoni prende in esame le possibili degenerazioni della persuasione, portando l’esempio del Gewissen, che considera la persuasione non solo condizione necessaria, ma anche sufficiente per agire. In questa sede è evidenziato anche il ruolo decisivo del linguaggio come medium del riconoscimento reciproco, che impedisce all’individualità di ripiegarsi su se stessa e che può darsi solo all’interno di una comunità – non a caso, alcune figure difettive, come l’anima bella, sono caratterizzate dal silenzio dello spirito. Secondo l’autrice, la pacificazione dello spirito assoluto è anticipata al termine del capitolo fenomenologico sulla moralità, dove Hegel parla del ‘Sì della riconciliazione’, che riassume le autentiche possibilità del Gewissen. Solo in tal modo si genera l’autentica intersoggettività dello spirito che sarà poi così in grado di autocomprendersi come ‘Io che è Noi, Noi che è Io’.

Infine Moyar, nel suo Hegel and Agent-Relative Reasons, si concentra sulla normatività, ossia sul processo sociale di dare e chiedere ragioni, domandandosi di che tipo siano le ragioni implicate in questo processo; egli adotta la distinzione operata da Nagel tra le ragioni soggettive – relative all’agente – e quelle oggettive o neutrali. A suo parere le ragioni individuali della vita etica sono relative all’agente, mentre invece la valutazione della sostanza  sociale  (etica)  è  agente-neutrale.  Nel  diritto  astratto, atomistico, prevalgono le ragioni neutrali: nella moralità, punto di vista soggettivo dell’agente, non tutte le ragioni sono relative; il bene è invece sorgente di ragioni neutrali. Moyar sostiene che nella vita etica Hegel rispetti la prospettiva individuale e particolare dell’agente, e che le istituzioni etiche abbiano esattamente la funzione di liberare l’individuo dall’aspirazione alla neutralità; si intersecano il piano individuale e quello istituzionale. Anche secondo Moyar un contesto istituzionale comune è il presupposto per la condivisibilità delle ragioni e il riconoscimento. Un leitmotiv comune a tutti gli interventi può essere così individuato nel ruolo capitale svolto dalla dimensione sociale, con diverse valenze, nella definizione del ruolo dell’agente, ed in particolare nel concetto di riconoscimento.

In ultima analisi, ritengo il presente volume particolarmente prezioso, perché fornisce un prospetto accurato delle diverse prospettive da cui il concetto di azione in Hegel può essere affrontato, e propone una ricca panoramica del dibattito attuale; esso rappresenta un documento autorevole e stimolante sia per coloro che vogliono accostarsi per la prima volta al tema, sia per coloro che già vi lavorano. Da questo punto di vista l’intento dei curatori può dirsi a mio avviso pienamente raggiunto. La scelta dei saggi è molto attenta, ed ulteriori punto di forza sono rappresentati dal fatto che ne emerge un reale dialogo tra i vari autori, e che il tema è indagato e documentato in più luoghi dell’opera hegeliana. In sintesi, questo libro è utile per avere uno sguardo d’insieme sul dibattito in corso, dai contributi classici – Taylor, McIntyre, e McDowell – a quelli più innovativi, che accostano esplicitamente i due punti di vista e tentano di aprire nuove vie – in particolare Speight e Moyar.

 Veronica Ceruti, Università degli Studi di Trieste

La versione PDF della recensione è disponibile al seguente link: V. Ceruti – Review di A. Laitinen – C. Sandis (eds.), “Hegel on action”.

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