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Report: Seminario dott.ssa Selene Mezzalira (Padova, 6 maggio 2014)

Il 6 maggio 2014 la dott.ssa Selene Mezzalira (Università degli Studi di Padova) è intervenuta all’interno del settimo incontro del seminario “Temi e problemi della filosofia hegeliana: la filosofia dell’arte” del Corso di Dottorato in Filosofia dell’Università degli Studi di Padova.

Proponiamo un riassunto della relazione. Al termine del resoconto, riportiamo il PDF dell’intera seduta con inserita anche una traccia del dibattito.

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La critica di Hegel all’estetica kantiana: genio e… regolatezza

Dott.ssa Selene Mezzalira

 

Premessa: la ricezione dell’estetica kantiana nella filosofia classica tedesca

L’atteggiamento di Hegel nei confronti di Kant è uno degli episodi più significativi del modo in cui la cultura dell’idealismo tedesco ha recepito Kant. A parte i discepoli e gli specialisti del suo pensiero, come Schultz o Reinhold, che fanno delle esegesi della Critica della ragion pura il fulcro della loro interpretazione di Kant, la porta d’accesso privilegiata all’essenza del suo pensiero per i maggiori rappresentanti del protoromanticismo tedesco è stata la Critica del giudizio (d’ora in poi: KdU). Così fu per i grandi poeti, come Goethe o Schiller – e così fu anche per Hegel. Egli cominciò a familiarizzarsi con la KdU fin dagli anni di Tubinga, e quest’opera ha sempre goduto di una posizione di privilegio nei confronti delle altre due Critiche. Pur non superando mai quello che agli occhi di Hegel è il limite fondamentale del criticismo, e cioè l’esplorazione del solo lato soggettivo dell’esperienza, la terza Critica è, per Hegel, quella che più si è avvicinata, nella trattazione del giudizio sul bello e delle forme organizzate della Natura, all’autentico modo di concepire l’intimità dell’essere al pensare. Relativamente alla KdU, e specificamente alla sua parte estetica, si potrebbe riassumere il rapporto di Hegel a Kant nella formula: nec tecum nec sine te, nel senso che, secondo Hegel, la rivoluzione kantiana è un punto di partenza imprescindibile per il pensiero a lui contemporaneo, ma, al tempo stesso, Kant non ha saputo interpretare nella sua compiutezza il mondo che egli aveva portato alla luce.

Per un esame storico della valutazione hegeliana della KdU mi sono riferita principalmente alle Lezioni di estetica e allo scritto su Fede e sapere (le cui prima sezione è dedicata a Kant).

A parte qualche citazione di non grande rilevo, nelle Lezioni di estetica le pagine dedicate alla filosofia kantiana sono molto poche (Est. I 83-89, pp. 281-291). Esse aprono la “Deduzione storica del vero concetto dell’arte”, e sono seguite da quelle dedicate a Schiller, Winckelmann, Schelling, gli Schlegel, Solger e Tieck. Kant, quindi, svolge un ruolo capitale nella giustificazione del “vero” concetto dell’arte: la parte dedicata a Kant è la più ampia, e riassume i punti nodali della Critica del giudizio. L’esposizione è fedele all’assunto kantiano, che viene condiviso in toto, eccetto… l’avere ristretto la portata dei propri concetti al  solo lato soggettivo. Ciò non toglie che i risultati  fondamentali, cui  Kant  è pervenuto, costituiscano “il punto di partenza per l’autentica comprensione del bello artistico” (Est. I 89, p. 291).

La critica più pungente alla concezione kantiana del giudizio estetico si trova nello scritto Fede e sapere: qui Hegel esemplifica ciò che Kant avrebbe intuito giustamente, ma fallito nella sua interpretazione. A questo riguardo, mi concentrerò su tre temi principali: 1) i giudizi sintetici a priori; 2) il giudizio riflettente e la soggettività della massima; 3) l’idea di un “intelletto intuitivo”.

Presenterò poi un confronto tra la concezione del “genio” in Kant e quella dell'”artista” in Hegel, in cui tenterò di mettere in luce in che modo la differenza tra le due concezioni sull’arte riflettano l’impostazione filosofica fondamentale dei due pensatori: da un lato, la ricerca kantiana delle condizioni di possibilità, interne al soggetto, del produrre artistico, dall’altro l’interesse verso l’opera d’arte in quanto tale, nella molteplicità e concretezza delle sue presentazioni storiche in Hegel.

Infine, traccerò le linee generali del commento di A. Danto all’estetica kantiana, riferendomi al V capitolo, dedicato a Kant, del suo ultimo libro What art is.

PARTE I – LA CRITICA DI HEGEL ALL’ESTETICA KANTIANA

 

  1. 1.     I giudizi sintetici a priori

Per Kant la domanda suprema della ragione teoretica è: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Secondo Hegel, in tale questione è espressa l’idea che la differenza tra soggetto e predicato, tra essere e pensare, tra particolare e universale, “che questo eterogeneo è nello stesso tempo a priori, cioè assolutamente identico” (GW 327, p. 139). La ragione è l’identità dell’eterogeneo. Questa idea può essere intravista, per Hegel, non nella deduzione trascendentale delle categorie, ma solo là dove

“l’unità originariamente sintetica dell’appercezione […] viene riconosciuta come il principio della sintesi figurata, o delle forme dell’intuizione, e spazio e tempo stessi sono intesi come unità sintetiche, e l’immaginazione produttiva, spontaneità ed attività sintetica assoluta, è intesa come principio della sensibilità, precedentemente caratterizzata solo come recettività” (GW 327, pp. 139-140).

Questa unità sintetica originaria, lungi dall’essere un mero “prodotto” degli opposti, è invece, afferma Hegel, la “vera e propria, necessaria, assoluta identità di opposti” (GW 327, p. 140). Essa sta alla base tanto dell’immaginazione produttiva quanto dell’intelletto. Per Hegel, cioè,

“le forme kantiane dell’intuizione e le forme del pensare non stanno affatto come facoltà particolari reciprocamente isolate e contrapposte, come vengono comunemente rappresentate. Una sola e medesima unità sintetica […] è il principio dell’intuire e dell’intelletto” (GW 327, p. 140).

L’immaginazione produttiva “è un’idea veramente speculativa” (GW 328, p. 141). Il carattere speculativo dell’immaginazione è dato da una struttura che accomuna tanto il giudizio sul bello quanto l’organismo vivente: entrambi sono unità sintetiche tra determinazioni opposte (che Kant ritiene inconciliabili). Il giudizio di gusto è singolare e a priori (universale); l’organismo è identità di mezzo e fine, di causa ed effetto, di universale e particolare. Per Hegel, quello che in Kant è colto dal soggetto solo come massima soggettiva della riflessione, diviene attuazione concreta (“determinante”) della facoltà conoscitiva (Chiereghin, p. 167 ss.).

L’identità espressa dall’unità sintetica non presuppone l’opposizione, come ciò da cui emergerebbe come unità; al contrario, essa è in Kant “l’assoluta identità originaria dell’autocoscienza, che pone a priori assolutamente da sé il giudizio o, piuttosto, in quanto identità del soggettivo e dell’oggettivo nella coscienza, appare come giudizio” (GW 328, p. 141). Essa è sintetica in quanto bilaterale: in essa gli opposti sono uno. È inoltre assoluta perché non è un mero aggregato di molteplicità, ma è prioritaria all’opposizione tra io e mondo, la cui separazione derivata a posteriori dall’unità originaria.

Come sono possibili giudizi sintetici a priori? Essi, riconosce Hegel, sono possibili solo mediante l’identità originaria e assoluta dell’eterogeneo. Questa identità si separa solo nel giudizio, perché in esso soggetto e predicato, particolare e universale, si presentano come divisi. L’identità assoluta, che è l’a priori del giudizio o, in termini hegeliani, il “razionale”, non si presenta come medio nel giudizio, ma soltanto nel sillogismo. Nel giudizio “essa è soltanto la copula «è», un non-cosciente” che permane nella differenza senza superarla (GW 328, p. 142). Nel giudizio, di fronte alla coscienza si stagliano solo gli opposti nel loro contrasto, e non la loro unità: l’identità di universale e particolare rimane perciò non- cosciente, non saputa.

L’unità sintetica originaria dell’appercezione, distinta dall’io come attività rappresentativa, dev’essere perciò riconosciuta non semplicemente come un termine medio nella relazione tra un soggetto ed un mondo assolutamente esistenti nella loro separatezza, ma come “ciò che è primo ed originario, dal quale procedono separandosi tanto l’io soggettivo quanto il mondo oggettivo solo in vista di un fenomeno e di un prodotto necessariamente bipartiti […]. Questa immaginazione in quanto originaria identità bilaterale, che da un lato diviene soggetto in generale, ma dall’altro oggetto, ed è originariamente l’uno e l’altro, nient’altro è che la ragione stessa” (GW 329, p. 142) in quanto questa si manifesta nella coscienza empirica come il suo “in sé”.

Se “l’immaginazione, che è ragione immersa nella differenza” (GW 330, p. 143), appare come duplice, ciò accade solo perché nel giudizio essa appare come riflessa, mentre l’identità assoluta, l’in sé della coscienza empirica, cioè “l’a priori del giudizio, non si manifesta, e la filosofia non procede dal giudizio al sillogismo a priori, dal riconoscimento che questo giudizio è fenomeno dell’in sé alla conoscenza dell’in sé” (GW 330, pp. 143-4). Perciò Kant “ha posto nell’immaginazione trascendentale l’idea della verace apriorità” (GW 334, p. 149), senza tuttavia scorgervi il principio comune del “dualismo” tra pensare ed intuire, la cui differenza viene anzi resa assoluta.

  1. 2.     Giudizio riflettente e soggettività del conoscere

In Kant, l’identità originaria non viene riconosciuta in quanto ragione, ma rimane un oggetto di riflessione nel Giudizio. “Nel Giudizio riflettente Kant trova infatti il termine medio fra il concetto di natura ed il concetto di libertà. […] Ma questa identità, che sola è la vera ed unica ragione, non è secondo Kant per la ragione, bensì solo per il Giudizio riflettente” (GW 339, p. 154): l’introduzione di una legalità senza legge, di un libero accordo dell’immaginazione con l’intelletto, la descrizione delle idee estetiche come sovrabbondanti rispetto al concetto cui si riferiscono (KdU 314, p. 305), sarebbero tutte “sommamente empiriche” (GW 339, p. 155), e non avrebbero nulla a che fare con la ragione. Persino quando Kant ricorre alla ragione come “l’unica chiave” della soluzione dell’Antinomia del gusto, essa non è che “l’idea indeterminata del soprasensibile in noi” (KdU 341, p. 361) non ulteriormente comprensibile, e non viene riconosciuta come l’identità del concetto di natura e del concetto di libertà. Ma Kant non si è limitato a condurre a rappresentazione la “contraddizione riconciliata”, ossia a mostrare “l’astratta soluzione dell’antitesi”; egli si spinse fino a ritrovarne l’unità in un intelletto intuitivo, col quale tuttavia l’opposizione tra soggettivo e oggettivo non è tolta, giacché questa soluzione è considerata a sua volta come qualcosa di soggettivo (Est. I 84, p. 283).

Nel bello artistico viene tolta la scissione, operata dalla coscienza, tra universale e particolare, mezzo e fine, concetto e oggetto. In Kant, questo si esprime nella conformità del particolare al concetto, conformità che segna ogni opera d’arte bella. Nel particolare si trova sempre una forma di accidentalità, dovuta alla relazione che il particolare intrattiene non solo con l’universale, ma anche con gli altri particolari. Per Hegel, questo carattere accidentale, che consiste nel sentimento, nell’inclinazione soggettiva, non viene solo sussunto sotto l’universale dell’intelletto, ma si mostra intimamente legato all’universale e ad esso adeguato. In tal modo, “il pensiero s’incarna nel bello artistico e la materia non viene determinata dal pensiero esternamente, bensì sussiste libera”: se, da un lato, il particolare del sentimento e del godimento viene sublimato verso l’universalità dello spirituale e con ciò legittimato e “santificato”, dall’altro lato il pensiero, rinunciando alla propria avversità nei confronti della natura, “si rasserena” in essa; e così “natura e libertà, sensibilità e concetto trovano in un’unica realtà il loro diritto e la loro soddisfazione” (Est. I 88, p. 291).

Il punto cruciale della critica hegeliana riguarda la caratterizzazione kantiana dell’idea estetica come “una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione” e, viceversa, dell’idea della ragione come “un concetto indimostrabile della ragione”:

“Un’idea estetica non può divenire una conoscenza, perché essa è un’intuizione (dell’immaginazione), alla quale non si può mai trovare un concetto adeguato. Un’idea della ragione non può mai diventare una conoscenza, perché contiene un concetto (del soprasensibile), al quale non può esser mai data un’intuizione adeguata. Ora io credo che si potrebbe chiamare l’idea estetica una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione e l’idea della ragione un concetto indimostrabile della ragione” (KdU 342, p. 363).

Hegel ribalta l’affermazione kantiana: se «esporre» significa per Kant riportare una rappresentazione dell’immaginazione ai concetti, allora Hegel obietta che l’idea estetica ha precisamente nell’idea razionale la sua esposizione, mentre se dimostrare significa esporre il concetto nell’intuizione, altrettanto l’idea razionale ha nella bellezza ciò che Kant chiama dimostrazione. In altre parole nella bellezza si presenta anche al senso la realtà effettiva dell’idea […]” (Chiereghin, p. 167). In una parola, l’idea estetica trova la sua esposizione nell’idea razionale, e l’idea razionale ha la sua dimostrazione nella bellezza (GW 339, p. 155). Ma Kant pretende di trovare, da un lato, un’intuizione per l’idea della ragione, la quale sarebbe perciò sensibile e sovrasensibile a un tempo – ma egli non ne coglie l’unità; e, dall’altro, una conoscenza dell’estetico, in cui questo rientrerebbe nel dominio dell’intelletto. Poiché però nell’intuizione del bello si toglie l’opposizione fra intuire e pensare, Kant coglie questo togliersi soltanto come un “negativo”, nel concetto indeterminato del soprasensibile; e non riconosce nella bellezza il “positivo”, come “intuìto”, né riconosce che, nel principio della bellezza come identità dei concetti di natura e di libertà, il soprasensibile stesso si renda in certa misura conoscibile. Per Hegel, la ragione per cui Kant pone il soprasensibile come inconoscibile risiede nell’aver posto a fondamento il contrasto tra sensibile e soprasensibile. Egli non ha riconosciuto il “soprasensibile in quanto principio dell’estetico”, ma solo come “principio di una conformità della natura alla nostra facoltà conoscitiva”, in cui l’estetico si trova in relazione solo col soggetto, pel modo che “la sua intuizione non si espone per l’idea ed il conoscere, né la sua idea per l’intuizione”. Il bello viene con ciò limitato alla finitezza e soggettività della facoltà conoscitiva umana e al libero gioco delle facoltà (GW 340, pp. 155-156).

  1. 3.     Intelletto intuitivo vs intelletto discorsivo

Più che nel gioco armonico delle facoltà, l’idea della ragione, per Hegel, trova espressione nell’idea di un «intelletto intuitivo» o intellectus archetypus (distinto dall’intelletto discorsivo umano, o intellectus ectypus), introducendo il quale Kant si avvicinerebbe drasticamente alla vera essenza del Pensiero. Un tale intelletto “non avrebbe altri oggetti che il reale” (KdU 402, p. 485); per esso realtà e possibilità sarebbero tutt’uno, e la mera possibilità, con cui l’intelletto umano pensa l’accordo degli oggetti col Giudizio, sarebbe invece una necessità (KdU 407, p. 497). Per Hegel, l’idea di un intelletto intuitivo altro non è che l’idea dell’immaginazione trascendentale stessa come “attività intuente”: “l’immaginazione trascendentale è dunque l’intelletto intuitivo stesso” (GW 341, p. 157).

Ciò che Kant chiama “uso” (Hegel usa il termine Ausübung, ma in Kant è Gebrauch), in cui realtà e possibilità si trovano distinte, è per Hegel solo la “manifestazione” della facoltà conoscitiva. Kant non riconosce che vi è un altro “uso” della facoltà di conoscere, in cui pensiero e intuizione, realtà e possibilità, universale e particolare sono una e la medesima cosa. Nonostante Kant avesse di fronte entrambe – una ragione (che egli stesso ammette di poter almeno pensare) per la quale realtà e possibilità sono identiche, e la sua manifestazione (testimoniata dall’esperienza comune e oggetto della psicologia empirica), in cui realtà e possibilità sono separate, tuttavia “la sua natura ha disprezzato la necessità di pensare il razionale, una spontaneità intuente, e si è deciso semplicemente per il fenomeno” (GW 341, p. 158). In altre parole, sebbene Kant scorga la possibilità di un’identità originaria di meccanismo e teleologia, egli non riempie di contenuto questa possibilità, mantenendo invece salda la convinzione della finitudine della nostra capacità conoscitiva. In tal modo, egli finisce per considerare “trascendente” il principio stesso dell’identità, ossia l’organismo – “l’unità organica di un intelletto intuitivo” (GW 342, p. 159). “Kant si avvicina al concetto di organico e di vivente, solo sul versante della riflessione che li giudica soggettivamente” (Est. I 84, p. 283). Se nel concetto di libertà pratica la realizzazione dello scopo rimane un mero dover-essere, nel giudizio teleologico sul vivente l’universale è pensato come ciò che determina il particolare (cioè il fine). Anziché costituire oggettivamente la natura, per Kant tale giudizio è soltanto una massima per la riflessione soggettiva, che non potrà mai produrre una conoscenza oggettiva.

Lo stesso accade, per Hegel, nel giudizio estetico, che non scaturisce né dal solo intelletto, né dalla sola intuizione, bensì dal libero gioco di intelletto e immaginazione, in cui l’oggetto viene riferito al sentimento di piacere (o dispiacere) del soggetto. Se dunque, da un lato, la conoscenza umana è confinata entro i limiti di un sapere soltanto soggettivo (il “come se” della massima del giudizio), d’altra parte essa viene elevata a qualcosa di assoluto: la “soggettività e finitezza della massima devono però rimanere l’assoluto conoscere” (ibid.).

Il “sapere trascendentale” si rivela così un “sapere formale”, in cui l’organicità dell’immaginazione si smarrisce nel meccanismo di un’unità dell’autocoscienza, che permane nell’opposizione con la molteplicità empirica, la quale viene giustapposta all’unità “come qualcosa di estraneo, un più dell’empirico”, senza rendere ulteriormente comprensibile la connessione tra il principio che connette e ciò che viene connesso. Ma tale principio, come abbiamo visto, è l’immaginazione produttiva stessa, che però – di nuovo – scade, in Kant, a mera “proprietà” del soggetto. Il sapere formale lascia sussistere il contrasto e, assolutizzando entrambi gli opposti, non riconosce il medio, la ragione, che come un “al di là”. E così l’idea speculativa rimane, in Kant, una massima meramente soggettiva. In questo senso si può affermare che quella che per Kant è una massima soggettiva e riflettente del giudizio diventa in Hegel un principio costituente ed oggettivo del reale.

PARTE II – GENIO E… REGOLATEZZA: IL GENIO IN KANT E L’ARTISTA IN HEGEL

  1. 1.     L’artista in Hegel: fantasia, genio e ispirazione

Hegel sembra avere buon gioco, sul piano generale, nel denunciare i limiti della posizione kantiana a partire dal punto di vista superiore che egli pensa di avere conquistato. Tuttavia vale la pena d’istituire ora un confronto tra Hegel e Kant su un tema apparentemente circoscritto, in realtà cruciale per l’esistenza stessa dell’opera d’arte, e cioè l’attività creatrice del genio o dell’artista.

Nella sezione dedicata all'”Artista”, che termina il terzo capitolo della Prima parte delle Lezioni di estetica, Hegel si concentra sul momento dell'”interno soggettivo” da cui sorge l’opera d’arte, nella misura in cui questa si configura “soltanto nella soggettività creatrice, nel genio e nel talento dell’artista” (Est. I 362, p. 793).

Se l’opera d’arte trova la sua scaturigine nello spirito, essa necessita in pari tempo di un’attività soggettiva che sia in grado di produrla e attraverso cui essa diviene per altro, cioè “per l’intuizione e il sentimento del pubblico. Questa attività è la fantasia dell’artista” (ibid.): la fantasia è la facoltà principale del produrre artistico. È attraverso essa che il contenuto razionale viene posto in immagine. La fantasia è distinta dall’immaginazione passiva: la fantasia è eminentemente creatrice.

“Questo agire produttivo della fantasia, dunque, mediante la quale l’artista elabora e fa emergere in se stesso, in forma reale, come sua opera più intima, ciò che è in sé e per sé razionale, è quel che viene chiamato genio, talento, ecc.” (Est. I 366, p. 801).

“Il genio è la capacità universale rivolta alla vera produzione dell’opera d’arte e nello stesso tempo l’energia per sviluppare e realizzare tale capacità” (ibid.); capacità ed energia che rimangono però soggettive, perché “il produrre spirituale può essere realizzato unicamente ad opera di un soggetto autocosciente che si ponga come scopo tale creazione” (Est. I 366, p. 803). Mentre il talento non va oltre l’abilità esterna del fare artistico, è solo il genio a procurare “la capacità artistica e l’animazione generali” (die allgemeine Kunstbefähigung und Beseelung) necessari all’opera d’arte (cfr. il Geist kantiano, tradotto con “anima” nell’edizione italiana).

Lo scopo dell’arte è quello di esprimere e portare a chiarezza cosciente l’interiorità dell’animo, “di elaborare e far emergere dall’interno alla sua vera forma esterna solo quanto è in sé e per sé razionale”, in modo tale che la forma particolare risulti permeata dell’anima e della sostanza universale. “L’elemento più nobile e più eccellente, infatti, non è l’ineffabile, in modo tale che l’artista sarebbe in sé più profondo di quanto non riveli l’opera, bensì le sue opere sono il meglio e il vero; egli è ciò che è, non però ciò che rimane soltanto nell’interno” (Est. I 375, p. 819).

A differenza di quanto accade nell’educazione, l’arte richiede una “predisposizione specifica“, cui è essenziale un “momento naturale”. Proprio come l’opera d’arte colloca lo spirituale nell’esistenza sensibile, così “l’artista deve forgiare non nella forma unicamente spirituale del pensiero, bensì all’interno dell’intuizione e del sentimento, e più specificamente in rapporto a un materiale sensibile e nell’elemento del medesimo” (Est. I 367, p. 803). È questo aspetto immediato e naturale del creare artistico ciò “che il soggetto non può produrre in se stesso, e che bensì deve trovare in sé come immediatamente dato” (ibid.). Solo in questo senso si può dire che genio e talento sono innati.

L’ispirazione, lungi dall’essere suscitata da una “sollecitazione sensibile“, o “dall’intenzione puramente spirituale di produrre”, consiste invece nell'”esser pieno della cosa” e nella tensione a sublimare nella cosa la propria soggettività, a divenire l’attività stessa della cosa: “l’arte sopravanza la mera accidentalità tanto del contenuto quanto dell’apparire esterno, e pone perciò all’artista la richiesta che egli sopprima in sé le particolarità accidentali della propria peculiarità soggettiva” (Est. I 377, p. 821).

L’opera d’arte rimane tuttavia il frutto di un’ispirazione soltanto soggettiva fintantoché genio e oggettività non vengano congiunti nell’identità tra la soggettività dell’artista con l’oggettività della rappresentazione: ciò accade nell’unità che è “il concetto dell’autentica originalità” (Est. I 376, p. 821). L’originalità, lungi dall’essere una trovata arbitraria che porrebbe in risalto la particolarità dell’artista, è anzi “la vera oggettività e riunisce il soggettivo e il cosale della rappresentazione in maniera tale che ambedue gli aspetti non serbino più nulla di estraneo, l’uno verso l’altro” (Est. I 380, p. 829).

  1. 2.     Il genio in Kant: originalità, esemplarità, comunicabilità dell’incomunicabile

Nel § 46 della KdU, Kant definisce così il genio:

il talento (dono naturale) che la regola all’arte [Genie ist das Talent (Naturgabe), welches der Kunst die Regel giebt]. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista [angebornes productives Vermögen des Künstlers], appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell’animo (ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola all’arte [Genie ist die angeborne Gemüthsanlage (ingenium) durch welche die Natur der Kunst die Regel giebt]” (KdU, 307, p. 291).

Le caratteristiche del genio:

a)     Originalità: il prodotto del genio non è riproducibile perché non è possibile trovare la regola in base a cui l’opera d’arte è stata prodotta.

b)       Esemplarità: l’opera del genio si distingue dalle stravaganze originali in quanto “i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari” (KdU 308, p. 293); essi devono servire “come misura e regola del giudizio” (ibid.). Oltre a non essere frutto di imitazione, l’opera d’arte non è a sua volta imitabile; non si può imparare a creare come il genio. Newton, ad esempio, non è un genio, perché le sue scoperte si possono imparare, seguendo i passi che egli stesso ha seguito per produrre la sua opera; “ma nessuno Omero o Wieland potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee […] perché non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo agli altri” (KdU 309, p. 295). Il più grande inventore nel campo dell’arte si distingue così specificamente, e non per grado, dal genio artistico.

c)     Incomunicabilità della regola compositiva: “l’abilità dell’artista non è comunicabile, ma vuole essere data ad ognuno direttamente dalla mano della natura, e muore con lui, finché la natura un giorno non dia il dono ad un altro, che non abbia bisogno d’altro che di un esempio per esercitare in modo simile il talento, di cui egli è cosciente” (KdU 309, pp. 295-7). Il genio non può mostrare scientificamente la regola del suo prodotto, ma deve mostrarla in quanto natura; egli stesso non può rinvenire la regola della propria opera, né può trovarla a piacimento e produrre “a comando” un’opera bella.

In sintesi, “il genio è l’originalità esemplare del talento di un soggetto nel libero uso delle sue facoltà di conoscere” (KdU 318, p. 313). Ma quali sono le qualità che concorrono a costituire il genio?

Si dice spesso, afferma Kant, che un’opera d’arte è bella, ma senza spirito [l’edizione italiana traduce il Geist kantiano con “anima”, ma io preferisco usare “spirito” per evitare fraintendimenti]. Cosa si intende per “spirito” (Geist)? Nel suo significato estetico, spirito “è il principio vivificante dell’animo (das belebende Princip im Gemüthe). La “materia” con cui questo principio vivifica l’anima “è ciò che dà uno slancio armonico alle facoltà dell’animo”, ponendole “in un giuoco che si alimenta da sé” e fortificandole (KdU 313, p. 305).

“Ora io sostengo che questo principio non è altro che la facoltà di esibizione delle idee estetiche [das Vermögen der Darstellung ästhetischer Ideen]; dove per idee estetiche intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o un concetto possa esser loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili” (KdU 313-4, p. 305).

Quindi, “l’idea estetica è una rappresentazione dell’immaginazione associata ad un concetto dato […] che dà luogo a pensare in un concetto molte cose inesprimibili” (KdU 316, p. 311), la quale dà a pensare così tante rappresentazioni parziali che nessuna di esse può esaurire il concetto. Le facoltà dell’animo che costituiscono il genio sono dunque l’immaginazione e l’intelletto. Mentre, però, nel campo conoscitivo l’immaginazione è costretta a sottostare alla legge dell’intelletto, “dal punto di vista estetico essa è libera”, e fornisce spontaneamente un ricco materiale al concetto, col quale si accorda, ma ciò non in vista della conoscenza oggettiva, bensì dell’animazione soggettiva delle facoltà. Il genio non solo ha la capacità di trovare idee per un determinato concetto, ma le sa esprimere adeguatamente in modo da rendere comunicabile lo stato d’animo contenuto in esse. È a questo talento che Kant dà il nome di “spirito” (KdU 316-7, p. 311). Lo “spirito” estetico è dunque la facoltà di trovare un concetto comunicabile per una rappresentazione estetica che rimarrebbe in sé inesprimibile.

 

A. Danto e il concetto kantiano di “spirito”

La tematica del Geist dell’opera d’arte nella KdU è al centro della riflessione sull’estetica kantiana che il filosofo dell’arte Arthur Danto svolge nel V capitolo, intitolato Kant and the Work of Art, della sua ultima opera data alle stampe prima di morire, What art is. Egli riconosce la presenza, in Kant, di due concezioni dell’arte: la prima, basata sul gusto e sul bello, risulta difficilmente applicabile all’arte odierna; la seconda si concentra nelle poche pagine della Critica del giudizio in cui Kant introduce il concetto di “spirito” (spirit), il quale – afferma Danto – “ha poco a che fare col gusto, né tocca in alcun modo l’estetica della natura” (Danto, p. 117). Se il gusto, come afferma Kant nella nota al § 1 della KdU, “è la facoltà di giudicare del bello” (KdU 203, p. 71), lo spirito rappresenta invece “il potere creativo dell’artista” (Danto, p. 117). In questa distinzione tra gusto e spirito, Kant mostrerebbe di tendere verso una nuova era post-illuminista, verso l’idea hegeliana per cui il gusto è rivolto alla superficie esterna in cui giocano i sentimenti: “il gusto è semplicemente una facoltà di giudicare, non una facoltà produttiva; e ciò che è adeguato ad esso, non è solo per questo un’opera d’arte bella”; inoltre, in un’opera, che dev’essere ritenuta bella, “si trova spesso del genio senza gusto, o del gusto senza genio” (KdU 313, p. 303). A giudicare il bello è il gusto; a produrlo, il genio.

Ora, lo “spirito” di cui parla Kant “è internamente connesso con le facoltà cognitive. Ed è questo […] che lega Kant all’arte contemporanea, o, meglio, all’arte di ogni periodo storico […]” (Danto, pp. 118-9): “l’arte è cognitiva, perché ci fornisce idee” (Danto, p. 123) che il genio ha la capacità di strutturare sensorialmente e di trasmettere alla mente dell’osservatore. Per Hegel, questo lavoro si compie quando l’artista mostra la realtà sensibilmente, divenendo con ciò il primo termine di mediazione tra la realtà finita della natura e la libertà infinita del pensiero concettuale: “l’artista trova i modi di incarnare l’idea in un medium sensibile” (ibid.): l’arte è il termine medio tra l’occhio e la mente.

Nella seconda concezione kantiana dell’arte, Danto intravede anche un’affinità con la propria definizione di opera d’arte come embodied meaning – letteralmente: “significato incarnato” (Danto, p. 129). Per Kant, possedere un’idea estetica (avere “spirito”) non è condizione sufficiente per creare un’opera d’arte (giacché questa può essere “bella, ma povera di spirito”). Oggi se ne possono trovare diversi esempi: esistono idee estetiche che, kantianamente, non sarebbero accettabili come opere d’arte. Si potrebbe sostenere che tutto dipende dalla formazione storica e culturale dell’osservatore. In ogni caso, il punto è che l’arte è sempre qualcosa di più delle condizioni necessarie per parlare di arte (p. 133). Tanto più che, dal momento che esistono infiniti modi di incarnare l’idea, definire cos’è arte sembra impossibile: “ogni scelta può essere coerente con l’arte, ma non necessaria perché si tratti di arte” (Danto, p. 134). Danto conclude che “il massimo che si può raggiungere è ciò che Kant ed io abbiamo fatto – aver scoperto alcune condizioni necessarie” (Danto, p. 134).

Conclusioni

Da tutto ciò si vede come, nella sua sobria acutezza, Kant colga (nel libero gioco delle facoltà) la fonte della creazione artistica molto più di quanto non faccia Hegel. Su questa differenza influì l’indole filosofica dei due pensatori: Kant, tutto proteso alla ricerca delle fonti a priori dell’attività del soggetto, mirava a queste anche per cogliere il segreto dell’atto creatore (ed è invece modestissimo nelle sue esemplificazioni relative alle opere d’arte); Hegel, al contrario, interessato com’era all’opera d’arte come tale, più che al principio interiore da cui sgorga, dispiega su questo campo una straordinaria conoscenza storica, che offre una solida base alla profondità delle sue interpretazioni.

In conclusione, si comprenderà come la mia predilezione vada per Kant. Ma, dal momento che entrambi i pensatori possono essere detti “pensatori della libertà”, si potrebbe pensare che sia proprio la multilateralità degli aspetti sotto cui la libertà è stata indagata da Kant a permettere a quest’ultimo di cogliere la libertà dell’artista proprio nel suo presentarsi come un’apparente passività. Questo è anche uno dei punti centrali della differenza tra la concezione hegeliana e quella kantiana dell’operare artistico.

Contrariamente a Kant, per Hegel l’artista “deve aver visto molto, aver udito molto e aver conservato in sé molto” (Est. I 364, p. 797): “soltanto l’età matura e quella senile possono realizzare l’autentica pienezza dell’opera d’arte” (Est. I 366, p. 801). Kant direbbe forse che Hegel confonde il gusto con il genio: per avere gusto occorre esperienza (l’interpretazione corretta si ha solo dopo un accurato studio dell’apparato di significazioni di un’opera); il genio, invece, è innato. Kant afferma che “alla bellezza son meno necessarie la ricchezza e l’originalità delle idee, che l’accordo della libertà dell’immaginazione con la legalità dell’intelletto” (KdU 319, p. 315).

Inoltre, secondo l’affermazione hegeliana, sarebbe “sciocco credere che l’artista autentico non sappia quel che fa” (Est. I, 365, p. 799), mentre, per dominare il contenuto cui deve dare forma, l’artista deve ponderare, distinguere, differenziare. In verità, se è vero che l’artista deve maneggiare sapientemente la materia della sua creazione, l’esperienza artistica più profonda si ha proprio quando l’artista “non sa cosa sta facendo”. La libertà della creazione è così strapotente che chi la vive la patisce come uno stato di soggiogamento da parte di una potenza quasi estranea [critica di “misticismo della creazione” che rischia di appoggiare “una riduzione intellettualistica della ragione” (Illetterati)]. Gli esempi testimoniati dalla storia dell’arte sono molteplici: si pensi ad esempio a Wagner, che ammette di aver sognato l’inizio dell'”Oro del Reno”, o a Puccini, che sostiene di aver scritto la Butterfly sotto dettatura. Più in generale, si potrebbe dire che, paradossalmente, l’esperienza della libertà radicale è un’esperienza di totale assoggettamento (alla legge morale sul piano etico, a ciò che un’estraneità interiore “ditta dentro” nella creazione artistica).

Per questo, sarei tentata di supporre che nell’arte si esperisca una prossimità all’essenza dello spirituale più intensa rispetto a quanto accade nell’agire ordinario. Se qui l’altro è pur sempre una singolarità individuale, una personalità come la mia, nel produrre artistico quest’altro è diretta emanazione dello spirito, anzi lo spirito stesso sub specie artistica: non un’entità trascendente e separata, ma la sostanza pulsante e inesauribile della concretizzazione di ogni opera d’arte degna di questo nome.

Bibliografia

Le opere di Hegel e di Kant sono citate con l’abbreviazione posta di seguito all’inizio del titolo, seguita dal numero di pagina dell’edizione originale, e poi, a seguito dell’indicazione “p.”, dal numero di pagina dell’edizione italiana.

[KdU] I. Kant, Kritik der Urteilskraft, in Kants gesammelte Schriften, hrsg. Von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Bd. V, pp. 165-485; ed. it. Critica del giudizio, trad. di A. Gargiulo, introd. di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2005.

[GW] G.W.F. Hegel, Glauben und Wissen, oder die Reflexionsphilosophie der Subjektivität in der Vollständigkeit ihrer Formen, als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie, in “Kritisches Journal der Philosophie”, Zweiten Bandes erstes Stück , Tübingen, 1802, pp. 3-188; ed. it. Fede e sapere o filosofia della riflessione della soggettività, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971-1990, pp. 121-253 [cfr. le pp. 137-164 (325-346 dell’ed. orig.) dedicate alla “Filosofia di Kant”, e in particolare le pp. 154-161 (339-344 ed. orig.) dedicate alla critica del giudizio riflettente].

[Est.] G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die aesthetik, Duncker und Humblot, 1842; ed. it. Estetica, a cura di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2012.

[Danto] A. Danto, What art is, Yale University Press, 2013, cfr. in particolare il cap. 5 “Kant and the Work of Art” (pp. 116-134).

[Chiereghin] F. Chiereghin, Finalità e idea della vita. La ricezione hegeliana della teleologia di Kant, Verifiche, Anno XIX No. 1-2, gennaio-giugno 1990, pp. 127-229.

by Marco Barcaro

Di seguito il documento PDF contenente il resoconto dell’intera seduta:

PDF_Seminario Hegel_Padova 6 maggio 2014_Relazione Mezzalira.

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