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Classical german philosophy. University of Padova research group

Recensione: Johann G. Fichte, “Dottrina della scienza 1813”, a cura di G. Gambaro (Maurizio M. Malimpensa)

Siamo felici di condividere con i nostri lettori la recensione di Maurizio Maria Malimpensa al volume Dottrina della scienza 1813, di Johann G. Fichte, a cura di Giacomo Gambaro ed edito da RomaTrE Press (2018).

La recensione è apparsa in Universa. Recensioni di Filosofia, vol. 7 n. 2 (2018) ed è scaricabile in formato pdf a questo link.

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La già cospicua serie di traduzioni in lingua italiana delle numerose esposizioni della Wissenschaftslehre che Fichte tenne nel corso degli anni si arricchisce ulteriormente con il lavoro offerto da Giacomo Gambaro; e particolarmente importante risulta questo contributo, giacché a venire offerta al pubblico italiano è l’ultima esposizione organica, seppur non terminata, di Dottrina della scienza che il filosofo riuscì ad approntare prima della morte, venuta in capo a un anno. Ma il pregio di quest’opera non è soltanto quello di costituire un documento in più sull’attività didattica di Fichte a Berlino, bensì quello di sviluppare con un alto grado di chiarezza alcuni nuclei speculativi in grado di gettare luce sull’intero di quel pensiero che è il sistema di filosofia trascendentale elaborato dall’autore sin dalla sua prima apparizione. In particolare, è possibile e utile tracciare numerosi richiami con il Begriff e la Grundlage, che inaugurarono la riflessione pubblica di Fichte intorno alla Wissenschaftslehre. Non essendo questo il luogo, ci limiteremo a muovere qualche rilievo in tal senso e a svolgere brevemente quanto viene dimostrato nel testo a proposito del plesso Einbildungskraft-Bild, che già ci porta nel pieno del confronto suggerito, come nota acutamente anche il curatore nella sua ampia e bella Introduzione.

Oggetto di questa Darstellung, come peraltro di tutte le sue sorelle berlinesi, è l’ambito fenomenologico della Dottrina della scienza, cioè a dire la deduzione del Sapere, assolutamente mediante sé, e il suo sviluppo schematico all’interno della cerchia dell’apparire. Meglio, in quanto esso, così determinato, è lo stesso apparire dell’apparire. Ovviamente, e con queste precisazioni si apre la prima delle dodici lezioni, la stessa determinazione del Wissen in tale guisa, e della Wissenschaftslehre come un “vedere nel suo sorgere il sapere, il sapere Uno universale assoluto” (p.68), non può non portare con sé la coscienza che qui abbiamo a che fare soltanto con questo sapere, onde viene chiaramente che “la dottrina della scienza non è dottrina dell’essere [in corsivo nel testo]” (ibidem). È importante notare che qui, come sempre avviene in Fichte quando occorre questa opposizione, venga fatto il nome di Spinoza, campione nobile, in quanto assolutamente conseguente, del dogmatismo. Il motivo di quello che per il filosofo sassone è il limite radicale di ogni spinozismo è la mancata Besinnung “sull’immagine, sul pensiero” (ibidem). Questo ci porta diritti al cuore del tema e del modo in cui esso viene affrontato nella WL 1813, come già accennato: il rapporto tra Sapere-pensiero e Immagine-immaginazione. Affermiamo subito che quanto viene progressivamente raggiunto è proprio l’identificarsi di questi termini, attraverso il peculiare modo di procedere dell’argomentazione fichtiana. Non a caso, a uno dei più attenti e generosi lettori di Fichte è piaciuto caratterizzare la Wissenschaftslehre come una Bildenslehre, laddove è evidente che il movimento della scienza, e massime di quella scientia scientiarum che è qui in questione, è proprio quello del figurare/costruire. Particolarmente importante è il fatto che, proprio come si scopriva nella Grundlage nel momento di congiunzione fra le due serie della scienza teoretica, lo stesso procedimento che noi mettiamo in atto nelle deduzioni che costituiscono di volta in volta la Dottrina della scienza è opera, anzi è l’operare, della Einbildungskraft.

Ora, se il compito è quello di una comprensione trascendentale del sapere, ne consegue che questo, in quanto tale, procede sdoppiandosi, sì che “comprendere è essere immagine di un’immagine, assolutamente unito con l’immagine di un essere (dell’essere-immagine)” (p.73). Questo rilievo dà la cifra del grandioso sforzo fichtiano di mettere in forma l’aporetica dell’immagine nella sua radicalità più estrema. L’alterità radicale viene evocata nel momento stesso in cui viene detto che a darsi è propriamente sempre e solo ciò che, negando quell’alterità come alterità, si costituisce come differente in sé rispetto a ciò attraverso cui lo abbiamo visto sorgere. Questa scissione, la quale permane costantemente da cima a fondo nell’evoluzione del sistema fichtiano, costituendo il fondamento della contraddizione, è anche ciò che soltanto rende possibile parlare di immanenza assoluta a proposito dell’intelletto, nella misura in cui, come abbiamo accennato sopra, rispetto all’apparire assoluto, quello “non lo comprende, non lo forma, bensì lo è; e questo apparire assoluto è l’intelletto” (p.79). Ciò avviene necessariamente secondo questa legge fondamentale: “che un’immagine non è in grado proprio mai di essere, se non in quanto immagine” (p.77); o, altrimenti detto, che ogni essere si dà nell’immagine come immagine, pertanto lo stesso essere dell’immagine è un essere immagine dell’immagine, ovvero intelletto assoluto. Come si vede, l’assoluta immanenza di ogni fenomeno all’intelletto, e dell’intelletto all’apparire in quanto apparire assoluto, è reso possibile soltanto da quella originaria, e perciò sempre presente, differenza tra immagine ed essere.

Se quanto detto fin qui è chiaro, occorre ricordare che non si sono mossi che i primi passi nell’indagine costituita da queste lezioni. Infatti, il movimento che si è cercato di riassumere non si esaurisce in questa semplice opposizione, che sarebbe un arrestarsi dogmatico, ma procede in se stesso, oltre se stesso. “L’intelletto è fondamento dell’esistenza: perciò lo dobbiamo cogliere in quanto non è alcuna esistenza. Un’immagine da trovare al di là di tutta l’esistenza. Potenza” (p.81). È nel medesimo fenomeno, in quanto esso è intelletto, che si agita quell’inquietudine noumenica che spinge innanzi la ricerca, ponendo un nuovo compito. Il Vermögen qui all’opera, in quanto viene ricercato, è insieme elemento pratico e teoretico; esso pone l’esigenza di separare ulteriormente ciò che è stato riunito nella relazione originaria dell’immagine, secondo quanto quella stessa richiede per esser compresa. L’intelletto viene risospinto oltre se stesso nel momento stesso in cui si coglie come immagine, poiché esso “e il suo essere-immagine, non sono per nulla la stessa cosa” (p.82), cioè l’intelletto è immagine del suo essere-immagine, è relazione a sé come altro da sé, pur restando fermo che ogni alterità è resa im-possibile come tale, giusta “l’indistruttibile forma dell’intelletto, che esso si comprenda in quanto principio in ogni sua determinazione” (p.100).

Lo schema che abbiamo innanzi si configura come “un’assoluta identità scissa in una duplicità” (p.84), risulta cioè che l’immagine dell’immagine, in quanto l’intelletto è posto, si dà a sé come tale, e dunque raddoppiata in se stessa, per quel che pertiene alla sua forma. Quello che sembra un brogliaccio logico di difficile intendimento è in realtà il meccanismo lineare dell’atto positivo fondamentale, è ciò che noi agiamo nel momento in cui tentiamo di rispondere (o anche soltanto ce la poniamo) alla domanda critica: Was ist der Mensch? Nello svolgere tale quesito appare che il contenuto dell’immagine è simul all’interno e al di fuori rispetto all’immagine; l’immagine è posta, si pone, assolutamente da sé, e pertanto essa è, ma essa è come immagine, che è dunque tanto immagine, quanto assolutamente non è essere. Ciò avviene mediante il gesto fondamentale della riflessione (è uno dei grandi problemi della storiografia fichtiana seguire l’articolazione di questa figura, che nelle varie esposizioni appare secondo tutte le possibili varianti offerte dalla grammatica; tuttavia, e con un poco di arbitrarietà, qui usiamo questo solo termine, appartenente alla Grundlage, forti del fatto che nella presente versione esso ritorni con una certa insistenza accanto agli altri), che determina l’intelletto attraverso “la possibilità di un’immagine di sé, per il fatto che esso è immagine dell’assoluto” (p.88). L’intelletto immagine dell’assoluto è, per motivi tutt’altro che scontati e che qui trascuriamo, l’intelletto assoluto; bisogna dunque porre l’intelletto come assoluto, ma un tale porre è, e può essere soltanto, “un porsi dell’intelletto assoluto in noi” (p.91). A questo punto la stessa Dottrina della scienza appare come figura centrale nella deduzione che stiamo seguendo: il comprendersi assoluto dell’intelletto assoluto, in quanto esso è principio di sé come immagine del suo esser-principio, è momento necessario per la spiegazione del funzionamento dello spirito umano, in quanto essere razionale finito. L’identificazione dell’intelletto assoluto e della Wissenschaftslehre è la conseguenza inevitabile del fatto che “in noi l’intelletto deve assolutamente comprendersi” (p.93). Che si tratti di un’esigenza e non di una necessità meccanica o di uno stadio raggiungibile una volta per tutte, onde il caratterizzarsi del sistema fichtiano come System der Freiheit, è suggerito da molti aspetti; uno che ci pare particolarmente significativo è l’indeducibilità della realizzazione di questa autocomprensione: essa rimane come possibilità, rispetto a cui una prova di essa “noi possiamo offrirla solo in modo fattuale” (ibidem). Non che questo, peraltro, attenui l’esigenza di assolutezza scientifica che contraddistingue l’impresa fichtiana, ma, anzi, ciò soltanto ne tiene viva l’assoluta necessità. Questo elemento, a ben vedere, ha molto a che fare con le considerazioni che Fichte svolgeva nel 1794 proprio sul concetto del sistema che sarebbe venuto scrivendo in quegli anni, in specie l’impossibilità di dare una dimostrazione altrimenti che fattuale della completezza della deduzione operata nella e dalla Dottrina della scienza.

L’intelletto assoluto che si comprende assolutamente, purtuttavia, e anzi, proprio in quanto è intelletto e si comprende, non è affatto l’assoluto. E tuttavia, come si è visto, l’immagine, in quanto è immagine dell’essere, pone seco l’essere, e il suo essere, in quanto immagine, è assolutamente un essere-immagine dell’immagine dell’essere. L’atto con cui l’intelletto assoluto giunge a comprendersi è perciò sempre ancora intelletto, ovvero quella duplicità di essere e immagine che si è cercato di esporre dall’inizio. In questo senso, allora, l’intelletto stesso può concepirsi soltanto “in quanto assoluto divenire intelletto attraverso se stesso” (p.101). Che esso possa fare ciò, oscillando fra la determinatezza del proprio essere-immagine e l’immagine di sé, avviene solo a cagione di un fatto: che “l’intelletto assoluto […] come attraverso noi stessi lo esponiamo, […] e lo schematismo sono interamente la stessa cosa” (p.103). Attraverso tale azione è inaugurato per la prima volta quel vuoto da cui può sorgere qualcosa come un’alterità, nel momento stesso in cui essa tende a sé come pura identità. L’intelletto, volgendosi a sé totalmente, ponendo assolutamente se stesso, si trova scisso radicitus, né potrebbe essere altrimenti, dato che l’intelletto assoluto, in quanto tale, è propriamente riflessione: infatti “lo schematismo [che abbiamo visto essere unum et idem con l’intelletto] inizia dalla scissione in immagine ed essere, dunque dalla riflessione” (ibidem). Come esito abbiamo, ancora una volta, che la ragione, in quanto tale, si scopre come immaginazione creatrice. Né ciò è motivo di un semplice ripiegamento dell’intelletto su se stesso, in quanto l’io come essere-immagine “non ha di nuovo un’immagine di sé, ma questa immagine stessa è possibile unicamente attraverso l’opposizione del non-io” (p.108). Solo mediante questo sviluppo progressivo, attraverso cui l’immagine viene divisa in un molteplice infinitamente vario, è possibile l’attuazione di questo compito assoluto: “l’intelletto deve affatto comprendersi” (p.103).

La determinazione attraverso cui esso si pone è quella di doversi porre, sì che la Wissenschaftslehre si conferma ancora nelle sue ultime versioni come scienza del dover essere, sistema della libertà.

 

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