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Classical german philosophy. University of Padova research group

Book Review: Bruno Leclercq, “Fondements logiques et phénoménologiques de la rationalité mathématique chez Husserl” (Iacopo Chiaravalli)

Proponiamo la recensione del testo di Bruno Leclercq, Fondements logiques et phénoménologiques de la rationalité mathématique chez Husserl, scritta da Iacopo Chiaravalli e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni filosofia (Anno 5, Vol. 2 – 2016).


Bruno Leclercq, Fondements logiques et phénoménologiques de la rationalité mathématique chez Husserl, Vrin, Paris, 2015, pp. 195, € 20, ISBN 9782711625956

 

Iacopo Chiaravalli, Università degli Studi di Padova

 

È noto come la fenomenologia abbia il suo nucleo originario in una serie di riflessioni che Husserl svolse, a partire dal 1887, sull’origine delle rappresentazioni numeriche. Nonostante gli studi sul pensiero matematico del giovane Husserl non manchino, solo un numero incredibilmente limitato di essi tenta di uscire da un’angusta discussione storiografica per farne l’orizzonte di comprensione dell’intera problematica husserliana. Di tale ambizione si presenta invece il lavoro di B. Leclercq, Fondements logiques et phénoménologiques de la rationalité mathématique chez Husserl, Vrin, Paris, 2015.

Il volume si apre con un’esposizione dei presupposti storico-teoretici dei due concetti su cui Leclercq impernia la propria analisi del dibattito sull’epistemologia matematica: intuizione e deduzione. Rimandando il lettore a un suo lavoro precedente (B. Leclercq, Intuition et déduction en mathematiques. Retour sur la «crise des fondements», E.M.E., Bruxelles, 2014), l’autore ripercorre a volo d’uccello il passaggio da un presunto primato dell’intuizione in Descartes e Kant sino a un suo ribaltamento con il saggio di Bolzano dedicato alla critica del paradigma “intuitivo” dell’interpretazione kantiana della matematica. Il paradigma bolzaniano di completa deducibilità dei concetti, che svincola la matematica da ogni tipo di intuizione sensibile, apre alla comprensione del transfinito di Cantor così come alla algebrizzazione totale della geometria operata da Riemann.

Il primo capitolo è forse il meno originale. Viene infatti rapidamente ripercorso il passaggio dal presunto psicologismo della prima parte della Filosofia dell’aritmetica del 1891, dedicata ad illustrare la nascita della rappresentazione propria del numero a partire dall’atto di astrazione sull’attività di collegamento di entità omogenee, all’antipsicologismo “platonizzante” dei Prolegomeni a una logica pura, lasciando quasi intendere che l’autore sia favorevole a un’interpretazione che schiaccerebbe la posizione husserliana su quella di Frege. In tal modo Husserl diverrebbe portavoce di un logicismo che esclude completamente il soggetto da qualsiasi discorso sulle componenti logiche della scienza. Con un’inaspettata torsione, però, Leclercq ribalta le attese: “En s’en tenant à cette première lecture du passage de la Philosophie de l’arithmétique aux Recherches logiques, on serait donc tenté de conclure que, retournant sa veste, Husserl s’est rangé dans les «Prolégoménes» aux arguments de Frege et qu’il a épousé l’antipsychologisme platonisant de ce dernier. La question, cependant, est bien plus complexe que ne le suggère cette interprétation” (p.46).

Il secondo capitolo, che rimane a mio giudizio il migliore del libro, è una preziosa e precisa ricostruzione storico-concettuale di come Husserl si sia spostato da una posizione costruzionista assunta dal proprio maestro Kronecker sino a sposare una visione decisamente più vicina al formalismo di Hilbert. Veniamo infatti rimandati alla Filosofia dell’aritmetica, di cui non era stata analizzata che la parte iniziale, tralasciando completamente la sezione dedicata alla rappresentazione impropria (cioè simbolica) del numero. Con una rimarchevole capacità di sintesi, Leclercq riesce a mostrare come sia stata proprio l’impossibilità di dare una spiegazione non simbolica dei fenomeni aritmetici di base come l’unità o lo 0 che ha costretto Husserl a dover mettere in questione il proprio paradigma iniziale. La Filosofia dell’aritmetica è infatti un libro scisso non solo letterariamente, ma anche concettualmente. Da un lato una visione costruttivista che parte da unità date in modo proprio per arrivare a entità della cui valenza intuitiva  non possiamo più essere certi; dall’altro, un numero fondato sulla propria autodeterminazione simbolica attraverso l’accentramento di proprietà definite dagli assiomi del sistema di calcolo di cui fa parte. La comprensione simbolica del numero si dimostra molto più funzionale di quella propria dal momento che riesce a dar conto di entità fondamentali del processo aritmetico. Se, infatti, la rappresentazione propria del numero è frutto di un processo di collezione e astrazione, in che modo si potrebbe dire che lo 0 abbia così la propria origine? Se invece lo interpretiamo come il risultato del calcolo 1-1 riusciamo a spiegarcene l’esistenza, risolvendolo però nel suo valore di risultato di un’operazione.

Il bivio che si apre davanti a Husserl, esattamente nel momento in cui viene a trovarsi nella condizione di dover rendere ragione delle tipologie numeriche più complesse (come irrazionali e immaginari), è quindi da un lato la via del puro calcolismo e, dall’altro, una che non coincida più né con il costruzionismo a base psicologica della prima parte dell’opera né con una matematica ridotta a semplice funzione di calcolo, ma nemmeno con la soluzione fregeana. La recensione dell’Algebra di Schroeder non lascia dubbi. Se la matematica deve essere interpretata come piano di pura operatività simbolica, ciò non toglie che le sue basi concettuali non possano essere risolte in mera tecnica di computazione. Si tratta così di fondare la possibilità di vedere il livello operazionale come parte di una teoria più complessiva o, meglio, di mostrare come la matematica sia semplicemente la particolarizzazione di un campo di pensiero più generale, la logica, in grado di dar conto dei propri concetti. Il calcolo è giustificato perché fondato su assiomi e la forma assiomatica è giustificata dalla sua forma di teoria, a sua volta fondata da quella che nei Prolegomeni viene chiamata la teoria delle teorie, ovvero la logica pura. L’assunzione di una visione prima simbolica e poi assiomatico-deduttiva (formalistica à la Hilbert) della matematica conduce la riflessione husserliana al riconoscimento dell’idealità dei contenuti veritativi delle scienze esatte, ovvero alla loro irriducibilità alla mera operatività.

Leclercq non avrebbe potuto prepararsi meglio il terreno per un’analisi dei contenuti epistemologici delle Ricerche logiche ed effettivamente non delude le attese. All’inizio del capitolo terzo viene infatti fornita una brillante spiegazione del perché le definizioni fregeane degli oggetti logici e la totale esclusione della coscienza come campo della loro apparizione non possano essere accettate da Husserl. Si prosegue poi con una chiara e brillante esposizione dei momenti salienti che permettono alle Ricerche logiche di pretendersi una completa fenomenologia dei vissuti di pensiero (riassumendo: la teoria dell’astrazione, la determinazione dell’oggetto intenzionale e l’intuizione categoriale). È però nel passaggio dall’analisi delle Ricerche logiche alle Idee I che si comincia a intravedere come problemi interpretativi prima meno evidenti ora si mostrino con sempre maggiore ingerenza. Dopo pagine così brillanti si rimane infatti sorpresi nel constatare come Leclercq non faccia altro che riprendere implicitamente la schematica visione di un Husserl che passerebbe da una fenomenologia oggettivistica delle Ricerche logiche a un fondazionalismo a base soggettivistica delle Idee I. Senso di stranezza che si trasforma in vera e propria delusione nel momento in cui si coglie l’autore ad affermare che nelle Idee I il lato noetico del vissuto intenzionale avrebbe funzione sintetica nei confronti del dato iletico, facendo così ripiombare Husserl nella presunta visione kantiana di un polo Io che struttura l’unità oggettuale (cfr. p.105). Da qui alla fine dell’ultimo capitolo il testo è un declivio scosceso che passa dal soggettivismo delle Idee I a un addirittura conclamato antropologismo della Crisi delle scienze europee. Persino le brevi note, inserite in modo apparentemente  solo compilativo, sulla sistematizzazione della logica pura in Logica formale e logica trascendentale, così come gli accenni fugaci alla fenomenologia della genesi non salvano Husserl dall’accusa di una metamorfosi tanto immotivata quanto inspiegabile all’interno del contesto interpretativo di Leclercq.

Diversi i dettagli che l’autore ha trascurato. In primo luogo non si riscontrano nelle Idee I passi in cui alla noesi viene attribuita una spontaneità sintetica. L’opera del 1913 viene interpretata come se Husserl non avesse nessuna cognizione della fenomenologia genetica, quando, invece, le Idee I sono dichiaratamente concepite come introduzione generale a una fenomenologia della costituzione e a un’analisi delle relazioni tra le diverse scienze; compiti che avrebbero dovuto occupare rispettivamente il secondo e il terzo tomo. L’analisi che Leclercq fornisce della Krisis si scontra, inoltre, con le esplicite dichiarazioni dell’ultimo Husserl volte a scoraggiare qualsiasi interpretazione antropologistica della fondazione trascendentale della fenomenologia.

Se da un punto di vista storico sono sicuramente queste le obiezioni più rilevanti, mi sembra di maggior utilità fare chiarezza sul perché un testo così ben informato e che ha colto il ruolo centrale giocato dalla matematica nello sviluppo del pensiero di Husserl sia ricaduto nel cliché interpretativo del primato di una soggettività straripante. A mio modo di vedere l’autore è rimasto vittima di due fattori ben precisi. Da un lato è evidentemente vittima di un modo di fare storia della matematica che la considera solo come uno strumento, un mezzo di cui narrare le sorti. Dall’altro, una simile concezione non può che condurre a cercare di dare fondamento a tale strumento, senza però essere in grado di fornirne un criterio soddisfacente di condotta epistemica. Ciò emerge con particolare chiarezza nel momento in cui l’autore ripercorre la storia delle “chiarificazioni epistemiche” della conoscenza matematica da Descartes a Husserl. Si sottolinea giustamente l’evidente cambiamento avvenuto con le critiche bolzaniane a Kant, senza però chiedersi cosa ha condotto Bolzano a mettere in questione il paradigma kantiano di comprensione della matematica. Sembra così che l’autore consideri la storia della matematica come l’avvicendarsi di tecniche la cui valenza epistemica è a grandi linee la stessa, di cui la filosofia fornirebbe comprensioni via via più corrette.

Come è stato messo in evidenza da numerosi storici della matematica (Loria, Israel, Bos), tra la matematica moderna e la matematica degli ultimi due secoli ci sono delle gigantesche divergenze. Constatare un simile cambiamento non sarebbe, però, di per sé sufficiente. A ciò va infatti associata una considerazione che è in grado di vedere nella metamorfosi di inizio Ottocento non solo il progressivo venire in chiaro di possibilità operative sempre più efficaci, quanto la trasformazione complessiva dell’atteggiamento con cui le matematiche si rivolgono al proprio oggetto. Se la matematica sorta dalla rivoluzione cartesiana era fondata sulla risoluzione di problemi attraverso la scoperta di regole in grado di determinare la produzione dei luoghi geometrici delle curve, quella ottocentesca ha come suo scopo precipuo la chiarificazione delle procedure  operative, che la matematica moderna aveva messo in campo, attraverso una progressiva simbolizzazione, staticizzazione e ridefinizione dei suoi strumenti concettuali. Da prescrittiva la matematica si fa descrittiva dei modi attraverso cui un oggetto può prodursi, dovendosi appellare a una presunta unità oggettuale al di là delle diversità dei modi di costruzione (su questo è chiarissima la recensione che Frege fece alla Filosofia dell’aritmetica). La matematica ottocentesca porta con sé un determinato modo di vedere il mondo che si esplica, da un lato, nell’assumere la descrizione come proprio modus operandi, mentre, dall’altro, la descrizione si rivolge non a un oggetto statico bensì a una genesi la quale mette capo a un’entità, la cui validità non è riducibile a quel processo di costruzione da cui deriva. Non è difficile scorgervi i prodromi della rivoluzione fenomenologica in filosofia, che farà della descrizione e del correlativo concetto di costituzione i propri assi portanti. La soggettività è trascendentale proprio nella misura in cui permette la costituzione della trascendenza, ovvero la manifestazione di un senso che è irriducibile al processo attraverso cui arriva ad apparizione e la fenomenologia non è che la modalità descrittiva attraverso cui la soggettività prende coscienza di sé come luogo della costituzione oggettuale.

 

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