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Intervista a Remo Bodei

Martedì 26 novembre 2014, Remo Bodei, Professor in Residence presso la University of California, Los Angeles (UCLA), ha tenuto, presso l’Università di Padova, una conferenza dal titolo “La Civetta e la Talpa. Il concetto di filosofia in Hegel”. In questa occasione Marco Ferrari, dello staff di hegelpd, ha intervistato lo studioso italiano, ponendogli alcune domande relative alla filosofia hegeliana e dintorni, prendendo spunto anche della recente pubblicazione de “La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel”, che costituisce l’edizione riveduta e ampliata del celebre libro del Prof. Bodei, “Sistema ed epoca in Hegel”. 
Ringraziamo molto Remo Bodei per aver accettato di rispondere alle nostre domande. Qui di seguito riportiamo una trascrizione dell’intervista. Una versione scaricabile del testo è disponibile a questo link.

MF: Partiamo da lontano. La pubblicazione, nel 1975, di “Sistema ed epoca in Hegel”, costituisce il prodotto finale di un interessamento, da parte sua, per il pensiero hegeliano e di una serie di ricerche intorno ad esso che l’hanno occupata sin dall’inizio della sua attività di studioso. Interessamento e ricerche che avevano, qualche anno prima, reso disponibile al lettore italiano la “Vita di Hegel” di Karl Ronsenkranz, nella sua prima ed unica traduzione, e che, attraverso questa monografia, avevano l’obiettivo, di «scrostare dall’immagine di Hegel i principali pregiudizi e banalità che vi avevano depositato, in una sequenza di strati successivi, interpretazioni […] distorte o frettolose». A questo proposito, vorrei cominciare, chiedendole che ruolo hanno avuto gli studi hegeliani nella sua formazione e quale importanza lo strumentario hegeliano ha rivestito nell’elaborazione dei suoi studi successivi.

RB: Ho cominciato ad interessarmi di Hegel quando facevo il terzo anno di Università a Pisa, alla Scuola Normale;  in quell’anno ho avuto una borsa del DAAD tedesca e sono stato all’Università di Tubinga. Là ho seguito qualche corso di Ernst Bloch, ho cominciato a frequentare le biblioteche e ad allargare la mia conoscenza, non soltanto di Hegel, poiché nella mia tesi di laurea un riferimento al suo pensiero era presente solo in parte. Essa infatti verteva, in generale, sulla costituzione della Germania, tematizzando, in particolare, gli aspetti giuridici del passaggio da una Germania che era costituita fino al 1801, anno del Trattato di Lunéville, da trecentosessanta staterelli (tra  cui si contavano principati ecclesiastici come Colonia, Treviri e Magonza, città libere come Francoforte, ducati e monarchie come quella prussiana o il Württemberg), ad una nuova e diversa configurazione. Cercavo di vedere come Hegel, nella Verfassung Deutschlands, avesse pensato tale transizione. Ho studiato, pertanto, soprattutto questioni giuridico-politiche e ho lavorato in archivi tedeschi sul giacobinismo. L’anno seguente, Cesare Luporini, che era il mio professore di Filosofia, si è trasferito a Firenze ed a Pisa è arrivato uno studioso di Hegel come Arturo Massolo. Di Massolo ho apprezzato soprattutto la personalità, completamente informale. Egli lavorava molto sui testi, dimostrando una grandissima acribia; fece, per esempio, un corso sulla Fenomenologia dello spirito di un anno e riuscì a leggere solo dieci pagine. E’ da lui che sono stato successivamente introdotto all’insegnamento, perché ogni tanto, siccome stava ad Urbino, non poteva venire, e diceva a me di fare lezione. Era una persona estremamente simpatica; talvolta era un lavoratore indefesso, altre volte, siccome aveva bisogno di studiare oppure non si era preparato, in occasione degli esami diceva a me e Gargani, che eravamo i suoi assistenti, di fare girare la voce che il professore era di cattivo umore, di modo che gli studenti andassero via. In seguito, appena laureato, sono andato a Friburgo, dove ho seguito le lezioni di Eugen Fink e, successivamente, sono stato sei anni in Germania, ad Heidelberg, Bochum e Berlino. Ho continuato a studiare Hegel, ma sono progressivamente uscito dal modello dello storicismo invertebrato che era diffuso allora, oltre che dalla pura filologia. Senza dimenticare lo strumentario filologico e la coerenza storica, ho cominciato a riflettere: non semplicemente a dire quel che ha detto veramente Hegel, ma vedere, prima di tutto, se quello che ha detto è vero, e in secondo luogo, ad inserire la lettura di Hegel nell’ambito dei classici. A queste operazioni ho dedicato molto tempo. Nel frattempo ho tradotto i Primi scritti critici di Hegel, Soggetto-oggetto. Commento a Hegel di E. Bloch e ho curato l’edizione di Hegel e lo Stato di Franz Rosenzweig. In seguito, sono stato una ventina d’anni senza occuparmene. Me ne sono occupato in maniera intensa per due anni quando sono tornato a Bochum, ho lavorato allo Hegel-Archiv e ho scritto Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, nel quale, a partire da un frammento di Hegel, ho attraversato il pensiero e l’opera degli autori più importanti della Goethezeit: Goethe, Hölderlin, Novalis. Nel frattempo ho scritto un commento molto lungo, che poi è diventato un libro nell’edizione spagnola, degli scritti teorici di Hölderlin (Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Visor, Madrid 1990, ndr). Poi nuovamente, non me ne sono più occupato dal 1987 fino all’anno scorso, quando, su insistenza dell’editore, ho rimesso mano a questo libro (Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 1975, ndr), poiché, dopo che fu pubblicato nel 1975, esso si esaurì nel giro di un anno e non fu più ristampato. Ci ho lavorato un anno, nelle varie biblioteche. Il trenta per cento di questa nuova edizione costituisce un ampliamento rispetto a quella precedente; poi, a intarsio, ho modificato tutto, ampliato la bibliografia, etc. In questo senso, il mio interesse per Hegel è tornato vivo, tuttavia credo che nel futuro, per il tempo che mi sarà dato, non me ne occuperò più, salvo qualche presentazione del libro.

MF: Proseguirei, allora, addentrandomi maggiormente all’interno di quelli che erano i suoi propositi quando scrisse Sistema ed epoca in Hegel e che, stando a quanto scrive nell’Introduzione di questa nuova edizione, sono ancora oggetto del suo interesse. Prima di tutto la nozione di sistema. Come lei stesso ricorda «lo scopo del libro del 1975 era quello di fornire gli strumenti per rendere nuovamente leggibile il sistema nei suoi presupposti e nelle sue articolazioni, per valutare, nella loro incidenza sul nostro tempo, i problemi affrontati da Hegel attraverso la relazione tra lo sviluppo delle categorie filosofiche e il movimento storico». A partire dalla morte di Hegel, come lei stesso constata, la struttura sistematica «è stata corrosa e smontata», non senza buone ragioni. A suo parere, Hegel avrebbe attribuito ciò all’incessante lavoro della talpa,  la quale, aprendo ad un’altra epoca, avrebbe reso la precedente architettura di idee inadeguata. Oggi Hegel si troverebbe, per forza di cose, in una situazione a lui ignota, dovuta al fatto che, come lei afferma, «proprio quando il mondo diventa sempre più interconnesso, il pensiero stenta  a essere globale». Di fronte ad un Novecento che ha alimentato questo rifiuto della forma sistematica, le domanderei, per prima cosa, se a suo parere possono essere individuati dei tentativi di riabilitare il “sistema” in quanto forma filosofica. In secondo luogo, prendendo spunto dall’affermazione con cui conclude l’Introduzione a questa nuova edizione di “Sistema ed epoca in Hegel”, le chiederei quale rilevanza tale assenza ha rivestito nella rimodulazione di quello che, hegelianamente, si pone come il compito della filosofia, ovvero l’interpretazione del reale, delle sue forme, della sua evoluzione; un reale che è sempre più complesso e che rischia, come non mai, di risultare oscuro ad una generazione di individui priva di “civette filosofiche”.

RB: Il Novecento è stato un’epoca filosoficamente anti-sistematica, poiché si è avuta la percezione, soprattutto da Nietzsche in poi, che sia impossibile avere un quadro complessivo: i saperi sono articolati in maniera così differente che nessuno è un essere così leonardesco da poter abbracciare filosoficamente tale complessità. Di conseguenza, si è cominciato a privilegiare singoli aspetti dell’hegelismo, per esempio, nell’idea di Adorno, l’aspetto negativo, la dialettica negativa, e a vedere, quindi, soprattutto le dissonanze presenti nel mondo. Il mondo unificato sistemicamente è quello burocratico, amministrativo e politico, nella sua variante totalitarista. La variante perversa del sistema è il desiderare una società e una politica in cui ogni elemento sia subordinato all’insieme. Tuttavia, il pensiero sistematico è stato sviluppato anche in un senso differente ed è questo quello a cui io mi riferisco; per esempio, da von Bertalanffy e da altri. Un pensiero che nasce all’interno di studi di biologia e di sistemica, proprio come scienza della complessità. Attraverso questi riferimenti, quello che mi è venuto da dire è che il sistema hegeliano non è una camicia di forza e che, tantomeno, Hegel è un pazzo che vuole “mettere le brache al mondo” o utilizzare il “letto di Procuste” per adattarlo ai suoi pensieri. Al contrario, un sistema, prima di tutto, non è necessariamente un modo di ingessare le idee, ma un modo di avere un orizzonte, il quale, per sé e per forza, è limitato, altrimenti sfumerebbe nell’indistinto. Inoltre, il sistema di Hegel si configura come un sistema aperto, che prende in considerazione l’idea delle metamorfosi, dei cambiamenti di forma. Allo stesso tempo, non è vero che la sua filosofia, come hanno inteso molti autori a partire dall’immagine della civetta, chiuda la storia, e dunque la filosofia stessa. Al contrario, la filosofia si adatta a questo scavare della talpa della storia e pertanto, mentre la filosofia, come civetta, sa e non fa, la storia, come talpa, fa e non sa, attraverso un movimento inconscio proprio di essa. Sul far della sera di un’epoca che si sta chiudendo, Hegel fa come Aristotele, che si colloca tra la fine della civiltà classica e l’avvento dell’ellenismo (termine coniato da un discepolo di Hegel che si chiamava Droysen); nello specifico, guarda indietro ad un’epoca che sta volgendo al termine e cerca di comprenderla. La filosofia come “il proprio tempo appreso col pensiero” non significa ripetere la propria epoca, poiché, altrimenti, ciò che è attuale oggi sarebbe inattuale domani, ma significa incastonare l’una nell’altra le varie categorie che il pensiero filosofico ha elaborato al fine di costruire, a partire da esse, un orizzonte filosofico di riferimento. Questo orizzonte è, appunto, relativamente chiuso per essere comprensibile, ma allo stesso tempo, aperto, nel senso che non ritiene di essere definitivo. Hegel stesso ha detto che le sue enciclopedie sono di tipo didattico, appunti per gli studenti. Hegel ritiene che dopo di lui ci saranno, certamente e ovviamente, altre filosofie e che la sua filosofia non sarà l’ultima. Ciò non significa che la sua filosofia, come quelle dei suoi predecessori, saranno rese nulle da quelle successive. La storia della filosofia non è assimilabile ad una storia di serial killers in cui ciascuno ammazza il filosofo precedente per poi essere ammazzato. Le varie filosofie, al contrario, si incastonano telescopicamente le une nelle altre e mantengono la loro vitalità poiché sono legate sostanzialmente all’idea dell’attualità. Ogni classico, sia nel campo della filosofia, penso a Platone o Spinoza, sia nel campo dell’arte, Sofocle, Shakespeare o Dante, è sempre attuale; se mi è permessa una battuta, essi non sono morti come l’acqua, ma vivi come il vino, posseggono degli enzimi che li conservano. Un classico è quello che rifiorisce ad ogni stagione e mi dice delle cose che prima non avevo capito.

MF: Le farei, ora, due domande su quelli che lei ha definito i cambiamenti «qualitativi» che ha deciso di apportare al testo. 
Alcuni di essi vertono su temi, in qualche modo, già presenti nell’edizione del 1975 di Sistema ed epoca in Hegel, approfonditi alla luce del pensiero contemporaneo. Lei cita, per esempio, il significato della dialettica, il ruolo dell’analisi infinitesimale, il rapporto tra scienze naturali e psichiatria, il nesso tempo/divenire/eternità, la condizione dell’individuo, la funzione dello Stato e quella della società civile e, infine, le polemiche sul finalismo. 
L’altro grande campo tematico a cui ha deciso di dedicare maggiore attenzione e approfondimento è quello relativo alla concezione hegeliana del lavoro, della disoccupazione e della miseria. 
Le domanderei, allora, quale incidenza hanno avuto le mutazioni della realtà occorse negli ultimi quarant’anni nella sua analisi di tali nozioni? In riferimento soprattutto al secondo campo d’indagine, quale può essere, se esiste, l’utilità di una ripresa della filosofia hegeliana, al fine di cartografare i movimenti di una realtà, lavorativa e non, dove si percepisce sempre più la precarietà come normale condizione dell’esistenza?


RB: Innanzitutto, nelle cose che avevo già scritto e che ho approfondito sono molto presenti i problemi della dialettica e del tempo. La dialettica in Hegel costituisce l’elemento corrosivo; rappresenta la trascrizione in termini moderni di quello che era lo scetticismo antico. Essa serve, innanzitutto, a dimostrare l’inconsistenza dei concetti per come vengono presentati dall’intelletto, ovverosia come qualcosa di giustapposto e di tabellare. Tuttavia, il culmine del pensiero hegeliano non è rappresentato dalla dialettica, ma dalla speculazione, ossia la ricostruzione articolata e sistematica — ma allo stesso tempo mobile, quindi che si evolve — di tutto un determinato orizzonte. Per quanto riguarda, invece, l’idea di porre in evidenza gli aspetti legati al lavoro, alla disoccupazione, alle macchine e soprattutto, al denaro, questa mi viene dalla nuova esperienza, che abbiamo vissuto, delle crisi economiche e finanziarie. Da un lato, questo è un vissuto che fa guardare a quello che avevo scritto prima con occhi diversi, senza, tuttavia, inficiarne le altre parti. Ma è dovuto anche al fatto che, effettivamente, la pubblicazione delle Lezioni berlinesi e di Heidelberg hanno messo a disposizione una quantità di materiali che prima non si conoscevano. Essi rafforzano l’idea di uno Hegel lettore di testi di economia politica e di giornali inglesi e francesi, che conosceva banchieri e discuteva di sansimonismo, che era conscio di vivere nella Restaurazione, ovverosia in un’epoca prosaica rispetto ad un’epoca eroica precedente, un’epoca i cui caratteri sono fatti risaltare splendidamente ne Il rosso e il nero di Stendhal. Tale percezione mette alla luce, anche attraverso l’apporto di questi nuovi testi, quello che noi sentiamo, ossia di vivere in un’epoca in cui la vita è diventata precaria; non solamente perché la disoccupazione giovanile è aumentata, ma anche perché tutta l’esistenza nel suo complesso e il futuro si sono un po’ oscurati. La talpa anche presso di noi continua a scavare e non sappiamo in quali direzioni. Anche in questo senso, l’idea di Hegel è quella di mostrare che Das Kapital — il quale non è un’invenzione di Marx — domina la politica, nella misura in cui le strutture che lo costituiscono si sono rese indipendenti dal piano politico stesso. Le accuse a Hegel di essere uno statolatra, uno strenuo difensore dello stato prussiano sono, anche in questo senso, da ridimensionare. Egli vede che lo stato è fortemente indebolito dall’economia e che la logica della società civile si sta sovrapponendo a quella politica. Per questo motivo, almeno all’inizio, egli cerca di porvi rimedio conferendo autorità allo stato contro queste forze individualistiche proprie dell’economia. Inoltre, vede che l’effetto dell’apporto delle macchine è stato quello di produrre un eccesso; un eccesso che la gente non è più in grado di acquistare e che determina crisi economiche, le quali hanno come conseguenza la sollevazione, per esempio, degli operai inglesi che distruggono le macchine e la produzione di un’enorme miseria, ossia la plebe diffusa. Hegel si accorge che l’emigrazione nelle colonie non è più una soluzione sufficiente a fermare questi conflitti, poiché il denaro è diventato potenza incontrastata, la cui circolazione, tra l’altro, riproduce la medesima struttura del sistema, un “circolo dei circoli” che aumenta e si ingrandisce ogni volta. La crisi mostra l’insolubilità di tale conflitto; dal punto di vista politico, poiché si tratta di un’epoca farsesca, nella quale non si riescono a creare delle maggioranze, dal punto di vista socio-economico a causa della disoccupazione (Arbeitslosigkeit). Ma soprattutto, in questi testi si ha a che fare con uno Hegel straordinariamente eversivo, che dice che gli operai senza lavoro, senza pane (die brotlosen Arbeitern), hanno il diritto di rubare, poiché c’è un problema di sopravvivenza che è più importante della legalità. Qualcosa che oggi si direbbe nei circoli anarchici o nei centri sociali, ossia che la proprietà è un furto, etc. Hegel lo dice incidentalmente, anche perché era un uomo cauto, che sapeva di essere controllato dalla polizia, ma indubbiamente questi nuovi testi, di cui mi servo moltissimo nel libro, mostrano uno Hegel più ad amplio spettro. In questo libro ho trattato Hegel non per farne un’apologia, né soltanto per liberare il suo pensiero dai fraintendimenti a cui era stato soggetto; queste operazioni erano certamente necessarie per comprenderlo meglio, ma anche per capire i suoi limiti. Il limite principale è che, sostanzialmente, lui pensa come un europeo. Di conseguenza, vede gli altri continenti e le altre culture come un qualcosa di non maturo, dove addirittura la filosofia è assente e c’è soltanto una forma di saggezza. Noi, invece, viviamo in un’epoca in cui le civiltà del mondo si confrontano, e la dialettica hegeliana nella sua forma classica non regge, così come dopo la sua morte l’architettura del sistema non funziona e ne vengono mutuate solamente delle componenti. La stessa cosa era accaduta in epoca ellenistica con la dissoluzione del modello aristotelico-platonico. Aristotele, per esempio, riguardo alla condotta umana, prendeva in considerazione vari elementi: la Τύχη, il caso, l’Ἀνάγκη, la necessità e il Tέλος, la finalità. Accadde che gli epicurei attribuirono grande importanza al caso, gli stoici alla necessità, mentre la finalità finì per essere irrisa già a partire dai neoplatonici. Allo stesso modo Hegel pensa che la sua struttura sia valida per la diagnostica, ma non per la prognostica e, pertanto, il sistema si sfalda, come si diceva prima, dando origine a dei frammenti incomponibili all’interno di una visione generale. Questo ha portato molti a denigrare l’idea di sistema, che sembra l’opera di un pazzo, mentre io, al contrario, ho cercato di mostrare come esso abbia un suo senso e come, sebbene questo sistema oggi non sia più edificabile, sia necessario partire da esso per comprendere Hegel, i suoi limiti e le sue possibilità e la coerenza presente nell’evoluzione del suo pensiero.

MF: Concluderei, approfittando del quadro che tratteggia nell’Introduzione a questa nuova edizione di Sistema ed epoca in Hegel circa l’evoluzione a livello internazionale degli studi hegeliani negli ultimi anni, per domandarle come vede la situazione degli studi hegeliani in Italia e i cambiamenti che li hanno caratterizzati negli ultimi anni.

B: In Italia non c’è stato un grande lavorio su Hegel dopo gli anni settanta. Sono, certamente, mutate alcune abitudini, come quella di riflettere su Hegel a partire dal binomio Hegel-Marx o, come faceva Löwith, da quello Hegel-Nietzsche. Tuttavia, l’attenzione in Italia è stata rivolta soprattutto al pensiero di Heidegger e, di riflesso, all’interpretazione di Heidegger della Fenomenologia dello spirito. La novità vera è stata la Hegel Renaissance americana, laddove prima Hegel veniva irriso e in un certo modo disprezzato. Sebbene, infatti, tra fine Ottocento e inizio Novecento, fosse presente una scuola hegeliana fiorente in Inghilterra, negli Stati Uniti prevalevano posizioni di pensiero che erano vicine a quelle del pragmatismo e più tardi della filosofia analitica, che oggi lì è in calo, mentre in Germania e in Italia sembra la novità. All’interno di questa tradizione, c’è una riabilitazione di Hegel che nasce soprattutto in funzione antipositivistica, nel senso del neopositivismo, e della filosofia analitica. All’interno del dibattito riguardante i protocolli sensibili o il “dato”, Hegel è importante poiché consente di affermare che il “dato” è un fatto, ossia si inserisce in un contesto e, pertanto, non esiste una visione primitiva su cui si debba ragionare come in Carnap o in altri. C’è poi l’idea del legame sociale, ovverosia quest’idea di comunità che ha fatto di Hegel il campo di battaglia tra comunitaristi e liberals. Direi, quindi, che in linea generale si assiste ad una rinascita del pensiero hegeliano che, tornando in Italia, produce nuovi tipi di studi. Sono stati pubblicati, in questo senso, molti libri su “Hegel in America”. Al contempo, si sono fatti progressi per quanto riguarda il nucleo consistente, metafisico in senso antico, di Hegel; c’è il libro di L. Ruggiu sulla temporalità, che è molto interessante, e ci sono gli studi portati avanti da L. Illetterati, e da tutto il gruppo di F. Chiereghin, su «Verifiche»; questi sono degli studi molto mirati, focalizzati sia su aspetti particolari sia su strutture architettoniche della filosofia hegeliana, che stanno, poco a poco, erodendo i vecchi pregiudizi e fornendo un’immagine nuova di Hegel. Direi che i cantieri si sono di nuovo riaperti e che i frutti, sia in termini interpretativi e storici, sia in termini teorici, sono abbastanza interessanti.

Intervista di: Marco Ferrari

 

 

 

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