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Book Review: Robert B. Pippin, “Die Aktualität des Deutschen Idealismus” (Armando Manchisi)

Proponiamo la recensione del testo di Robert B. Pippin, Die Aktualität des Deutschen Idealismus, scritta da Armando Manchisi e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni filosofia (Anno 6, Vol. 1 – 2017). Il testo PDF della recensione è disponibile qui.

Robert B. Pippin, Die Aktualität des Deutschen Idealismus, Suhrkamp, 2016, pp. 441, € 22, ISBN 9783518297841

Armando Manchisi, Università degli Studi di Padova

Il volume è una raccolta di saggi curata dal Forschungskolleg “Idealismo tedesco analitico” fondato nel 2012 presso l’Università di Lipsia. Come suggerito dallo stesso nome, questo progetto vuole rimarcare l’attualità della filosofia classica tedesca per il dibattito di area analitica, riconoscendo un’affinità fra condizioni intellettuali del XVIII secolo e attuali, a cominciare dalla domanda sull’unità di mente (Geist) e natura (pp.7-8).

Il volume di Pippin procede esattamente in questa direzione, unendo un’approfondita analisi dei testi a una valutazione del loro potenziale teorico. I saggi qui riuniti vanno a completare un progetto che l’A. ha già delineato nelle sue opere maggiori e che viene illustrato nell’“Introduzione”. Questo progetto viene suddiviso in tre direttrici: la prima sottolinea la radicalizzazione del progetto kantiano operata da Hegel, con riguardo all’epistemologia; la seconda analizza la filosofia pratica hegeliana; la terza si confronta con il tema della modernità e della sua autocomprensione. I saggi raccolti in questo volume riprendono tali tematiche e, più che aggiungervi elementi di novità, ne forniscono un’ottima esemplificazione.

Il testo riunisce quindici contributi (la maggior parte già pubblicati), suddividendoli in tre sezioni. La prima (“Ragione e soggettività”) raccoglie sei saggi dedicati alla questione dell’autonomia, in una prospettiva sia teorica che pratica. Nei primi due, centro del discorso è il pensiero kantiano: l’idea di fondo è riassunta da un famoso passo della Fondazione della metafisica dei costumi, nel quale la ragione viene definita come “autolegislatrice [selbstgesetzgebend]”, in quanto “sottostà alla legge (della quale è autrice essa stessa)”. Tramite un confronto con W. Sellars (primo saggio) e C. Korsgaard (secondo saggio), Pippin delinea quindi un ritratto costruttivista di Kant: la “forma della ragione” origina una struttura normativa il cui elemento essenziale è la capacità di dare a se stessa le proprie regole. Il “paradosso” di questa posizione, tuttavia, sarebbe quello di indicare un principio normativo che aspira all’oggettività ma che viene formulato in termini solamente soggettivi (p.51).

Secondo l’A. (vicino in ciò a T. Pinkard), Hegel riprenderebbe questa formulazione, ma risolvendone la tensione interna. I successivi quattro saggi sono pertanto dedicati a un’analisi della “soluzione” hegeliana, grazie alla quale “Hegel si dimostra più kantiano che lo stesso Kant” (p.83). Nella sua filosofia, infatti, Hegel riuscirebbe a garantire sia l’oggettività delle norme che la loro “realizzazione”. Centrale è la peculiare nozione hegeliana  di “Geist”, inteso come spazio normativo che viene costruito  non più dall’attività della mia ragione, ma tramite rapporti sociali di soggetti agenti (p.90). Per Pippin è quindi importante sottolineare come lo spirito non sia una “sostanza” che “emerge” dalla natura, ma l’attività di autodeterminazione e autogiustificazione degli esseri umani. Questa concezione viene sviluppata attraverso differenti angolazioni: riferimento particolare sono soprattutto le pagine che Hegel dedica alle modalità della coscienza di definirsi in termini di “soggettività collettiva” (p.155). In questa direzione vanno sia le analisi della Fenomenologia dedicate alla definizione dell’autocoscienza come “desiderio” (quinto saggio), sia quelle dei Lineamenti sul rapporto fra moralità ed eticità (quarto saggio). Il contributo più originale è tuttavia l’ultimo, nel quale, a partire dalla definizione hegeliana della filosofia come “il suo tempo appreso in pensieri”, viene posto a tema il problema dell’“autoinganno collettivo” (sesto saggio). Tale questione permette infatti all’A. di difendere l’“attualità” del modello hegeliano, mettendosi al contempo al riparo dall’accusa di relativismo: Hegel difenderebbe una nozione di “oggettività” che non è il frutto della ragione soggettiva, ma il prodotto di dinamiche “istituzionali”, cioè di relazioni intersoggettive di riconoscimento (p.158).

La seconda sezione (“Logica e soggettività”) raccoglie cinque saggi, nei quali viene analizzato lo “statuto logico” della Scienza della logica e della Fenomenologia dello spirito, con riferimento sia ai loro procedimenti interni sia alle interpretazioni contemporanee. Il problema centrale per Pippin è innanzitutto il rapporto della filosofia hegeliana con la metafisica. Punto di partenza è il passaggio dell’Enciclopedia nel quale Hegel afferma che “la logica coincide [zusammenfällt] perciò con la metafisica”. Analizzando il rapporto fra logica kantiana e logica hegeliana, Pippin cerca di mostrare come in Hegel si dia una sorta di “logicizzazione” della metafisica (settimo saggio). Ogni categoria   logica,    in    quanto    pensata,   esige    un    “atto  di determinazione”: anche la categoria dell’“essere” non esprimerebbe alcun contenuto metafisico, quanto “la mera possibilità del pensiero di qualcosa in generale” (p.190).

Questa prospettiva viene indagata e difesa anche nei saggi successivi. Le domande in gioco sono ormai familiari all’esegetica hegeliana: cosa vuol dire che pensare è un negare? Qual è il rapporto fra negazione e giudizio? Che statuto ha la contraddizione nella filosofia di Hegel? Essenziale, secondo Pippin, è soprattutto il ruolo della determinazione, riassunto dall’idea che ogni predicazione implica una negazione (ottavo saggio). Le medesime dinamiche sono rintracciabili nella Fenomenologia (nono saggio). In quest’opera, infatti, Hegel delineerebbe una “teoria della soggettività”, la cui argomentazione non viene costruita deduttivamente, ma “sviluppata” progressivamente (p.222): in questo senso, è possibile per l’A. parlare di una “logica dell’esperienza”, la cui “macchina, che fa avanzare ogni cosa, è la negazione, o, detto più esattamente, è una modalità di auto-negazione” (p.223). Questi processi si rendono possibili grazie alla definizione hegeliana della Fenomenologia come “via del dubbio”, cioè come sviluppo mediato da dinamiche di estraneazione (p.225).

Negli ultimi due saggi della seconda sezione, Pippin si confronta con due protagonisti della Hegel-Renaissance americana: R. Brandom e J. McDowell. Con Brandom (decimo saggio), Pippin dimostra innanzitutto un ampio accordo: per entrambi la normatività dipende da processi di riconoscimento all’interno di comunità storiche concrete. Tuttavia, attraverso l’analisi dell’idealismo, dell’olismo, del “socialismo” e dello storicismo che Brandom ascrive al pensiero hegeliano, Pippin sviluppa alcune interessanti critiche. Centrale è soprattutto l’idea che Brandom rimanga fermo a un “frasario kantiano” della normatività (p.284): in questo senso, il suo riferimento a Hegel è una forma di soggettivismo, che Pippin indica anche come “positivismo” (p.271), sottolineando il rischio di un’istituzione “arbitraria” delle norme. Lo scritto su McDowell (undicesimo saggio) costituisce invece l’ultimo capitolo di un lungo scambio polemico fra i due autori, al cui centro si trova il problema dell’origine della normatività. Il testo procede da una chiarificazione teorica generale a un riferimento più diretto a Kant e a Hegel. A ben vedere, la polemica non è che una riproposizione dello scontro fra costruttivismo e realismo: particolarmente  problematica    è    per    Pippin    la    nozione mcdowelliana di “seconda natura”, intesa come spazio normativo reale ma non riconducibile né alle leggi della fisica, né ai processi sociali di riconoscimento. Nel pensiero di McDowell, si nota, sembra esserci una tendenza all’idea che la ragione possa “scoprire ‘la’ struttura normativa del mondo” (p.324); di contro, Pippin afferma: “per me – e credo per   Hegel – l’aspetto più interessante e istruttivo dell’autorità normativa è che essa può fallire”, cioè può “non essere più  riconosciuta come autorevole” dai componenti di una società (p.325).

Nell’ultima sezione (“Modernità e soggettività”) sono raccolti quattro contributi, dal contenuto più eterogeneo. I primi due vertono su argomenti di estetica. Il primo (dodicesimo saggio) è il più originale: esso propone infatti una riflessione sullo “statuto della letteratura nella Fenomenologia dello spirito”, che ha  come punto di partenza non la tematizzazione hegeliana della letteratura, quanto il fatto che Hegel concluda il suo testo (nel punto in cui la densità concettuale è all’apice) con dei versi di Schiller, e quindi utilizzando “non le sue proprie parole”, ma “al loro posto le parole di un poeta” (p.329). La risposta a tale problema, per Pippin, sta nel fatto che la Fenomenologia non sarebbe l’espressione di una metafisica, quanto un’analisi del rapporto fra l’agire libero, “corporeo ed espressivo”, e il mondo (p.347). In questo senso, la citazione conclusiva esprimerebbe l’“indispensabilità” della “dimensione estetica vivente dell’esperienza”, che pur nel suo venir “tolta” dalla riflessione filosofica, conserva il suo appello alla storicità della “realtà spirituale” (p.349).

Il contributo successivo è dedicato in modo più diretto alla filosofia hegeliana dell’arte (tredicesimo saggio). Un problema centrale dell’estetica moderna dopo Kant è per Pippin quello del giudizio estetico, della sua forma logica e della sua pretesa di oggettività (p.350). La teoria di Hegel non sembra presentare alcuna riflessione sul tema ed è quindi definita un’“estetica  senza estetica”. Per Pippin, tuttavia, comprendere la riflessione di Hegel sull’arte significa innanzitutto riferirsi alla sua teoria sociale delle norme (p.369). Ciò diviene allora occasione per tornare sulla concezione hegeliana dell’azione (uno dei punti chiave dell’intero volume) e sulla problematizzazione del “rapporto interno-esterno”. È questo riferimento, infatti, che renderebbe evidente il superamento, in Hegel, del dualismo di pensiero e sensazione e la sua riformulazione del problema dei giudizi estetici (p.382).

Il testo successivo cambia direzione in modo netto. Il contributo (quattordicesimo saggio) risale d’altronde al 1992 ed è dedicato al problema “di una possibile crisi o addirittura fine della ‘modernità’” (p.383), risentendo così delle discussioni sul tema diffuse fra anni Ottanta e Novanta. Il saggio si propone un confronto con due autori classici che hanno sottolineato le “aporie dell’autocomprensione filosofica moderna”: Nietzsche e Hegel. Questo ordine non è casuale, ma corrisponde all’idea pippiniana di fondo, per la quale Hegel, con la sua nozione di “conciliazione”, rappresenterebbe un’“alternativa” alle aporie della posizione nietzschiana e, al contempo, una possibilità per una sua migliore comprensione.

L’ultimo contributo (quindicesimo saggio), infine, rappresenta una lunga recensione al testo di S. Žižek, Meno di niente, nel quale il pensatore sloveno tenta una “rianimazione o riattualizzazione di Hegel”, alla luce di Lacan e di una non sempre perspicua nozione di “materialismo” (p.403). Attraverso uno scrupoloso dialogo con il volume di Žižek e i testi hegeliani, Pippin si pone la pregnante domanda sulla possibilità di un “ritorno a Hegel” nella società contemporanea. La sua risposta, di conseguenza, funge da giudizio riassuntivo dell’intero  volume. Pippin afferma infatti che, “in relazione a ciò, non si può essere che profondamente pessimisti, ma il ricercare tali possibili ‘tracce della ragione’ mi sembra una prospettiva ben  più hegeliana e ancora possibile” rispetto a indagini non guidate dalla razionalità (p.436).

Questo è, d’altronde, esattamente ciò che si impegna a fare questa raccolta: l’attualità dell’idealismo tedesco non è affermata in modo dogmatico, ma difesa attraverso la ricerca di “tracce”, in un sapiente dialogo fra passato e presente. Il testo non manca certo di forzature interpretative, anche nei suoi punti decisivi: il tentativo di depurare Hegel da elementi ontologici,  ad esempio, o l’eccessiva insistenza sulla “socialità” delle norme (che talvolta ne oscura lo statuto di “realtà”). Ciononostante, il volume va considerato un’opera più che apprezzabile e spesso esemplare di come vada intesa la relazione fra storia del  pensiero e analisi sistematica. Pippin si conferma così un protagonista di quel rinnovato interesse per la filosofia classica tedesca che si rivolge a Kant, Fichte e Hegel alla luce di quesiti teorici e che così facendo illumina tanto quegli autori quanto tali quesiti, aprendo prospettive originali in entrambe le direzioni.

Link utili:

http://www.sozphil.uni-leipzig.de/cm/fagi/

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